martedì 10 marzo 2015

Chianti Classico L'Amole 2011 - I Fabbri

"Oggi mi faccio una grigliata e mi ci bevo un bel Chianti". Sento pronunciare questa frase ancora tante volte, da chiunque, e ogni volta non posso fare a meno di pensare di quanto questo vino sia tutt'oggi nell'immaginario collettivo di molti italiani come "il classico vino rosso". E di conseguenza estendo il mio pensiero a come probabilmente questo vino venga visto all'estero, dove identificano con esso non solo la storia vinicola del nostro paese ma grande parte dell'intera tradizione enogastronomica. Insomma, in poche parole il "Chianti" è ancora il "Chianti", un'etichetta che dovrebbe essere il simbolo di una cultura di vino come quella italiana.


La chiosa a questa introduzione molti la immaginano già. Perchè vallo a trovare ormai "un bel Chianti". Massificazione commerciale, appiattimento del sapore, zero distinzione tra zone... la solfa è la solita, quella che corrisponde alla triste verità di tanti vini uccisi dalla filosofia industriale. Comprare un Chianti senza conoscerlo oggi è quasi sempre un suicidio. E' per questo che ricercarne di buoni è necessario e fondamentale è diffonderne le esperienze. Tra i più interessanti che io abbia bevuto in tempi recenti, c'è sicuramente il Lamole de I Fabbri. Azienda nata nel 2000 ma con radici familiari legate alla vigna che risalgono al 1600, gestita dalle sorelle Grassi, la sua particolarità è proprio nella sottozona che dà il nome al vino in questione: Lamole infatti è la parte collinare del Chianti più alta sul livello del mare, dai 550 ai 600 metri, un unicum per la zona e un elemento fondamentale per l'unicità di questi vini, che si differenziano da tutti gli altri della DOCG. L'azienda è certificata in agricoltura biologica ma ciò che più conta è che lavora in maniera rispettosa di ambiente e tradizione contadina, con il risultato di produrre dei Chianti lontani dal gusto standardizzato a cui l'industria ci ha abituato.

Nel particolare, questo Chianti Classico L'amole (con l'apostrofo) che è fatto di solo Sangiovese Grosso affinato un anno in cemento, gioca con la leggerezza senza approfittarsi di essa, sa essere gentile ma allo stesso tempo sa farsi valere in maniera pungente e raffinata. Elemento fondamentale è la mineralità tipica di questa parte collinare estrema. Non si pensi a note particolarmente sassose o carboniche, questa è piuttosto una mineralità terrosa, cupa, quasi timorosa seppur avvolgente e decisiva nella definizione organolettica del vino. A corredo i classici frutti rossi e la sua piacevole nota vinosa, d'impatto al profumo e di ritorno al gusto, dove il vino prende senza dubbio corpo lasciando ricordi molto belli al palato dopo la deglutizione.

Insomma, personalità, versatilità, genuinità. Cosa chiedere ad un Chianti se non questo? Nè banale, nè forzatamente diverso, il L'amole de I Fabbri è un vino di territorio. E ce ne fossero di "bei Chianti" come questo. Dalla pasta al ragù, alla grigliata, ai fagioli

sabato 21 febbraio 2015

Trebbiano d'Abruzzo 2009 - Emidio Pepe

Normalmente non mi avventuro in descrizioni di vini di cui si parla spesso un pò ovunque, anche se sono vini che magari apprezzo. Nè per snobismo, nè per una forzata ricerca di orginalità ma semplicemente perchè su certi vini si dice tutto ed il contrario di tutto quindi io mi limito, quando posso, a berli ed eventualmente ad apprezzarli. Ma il Trebbiano di Pepe è un caso diverso, perchè pur essendo uno di quei vini nell'orbita del circuito "naturale" che si può considerare "trasversale", visto che piace quasi a tutti, è un vino mai banale, che in ogni annata dona sensazioni diverse e che a seconda del momento in cui è aperto può andare in una direzione piuttosto che in un'altra.

Su Emidio Pepe c'è poco da aggiungere a ciò che si sa, è senza dubbio il personaggio vivente più importante del vino abruzzese, ed insieme ai compianti Valentini e Masciarelli ha fatto la storia vinicola di questa regione. Nella sua cantina, ben guidata da tutta la famiglia con la sempre esuberante figlia Sofia, si trovano vecchie annate sia di Trebbiano che di Montepulciano e le occasioni per fare delle verticali sono frequenti e sempre piene di interessanti spunti. Pionieri della viticoltura biologica, i Pepe hanno sempre lavorato "come campagna comanda" e nelle vigne sulle colline di Torano Nuovo, affacciate sull'Adriatico, non è entrato mai nulla di sintetico, così come in cantina non esistono lieviti selezionati e ci si limita nell'utilizzo di solforosa, rimanendo molto sotto a ciò che la legge del biologico consente.

Il Trebbiano di Pepe si può considerare tranquillamente uno dei più importanti bianchi italiani e questo 2009 lo conferma in assoluto. Timido all'apertura, il suo giallo dorato si chiude in se stesso, lasciando trapelare soprattutto la nota alcolica e leggermente smaltata che potrebbe far presagire ad un'esperienza gustativa messa a repentaglio. In realtà bastano pochi minuti per una graduale apertura che porta il calice a sprigionare pian piano tutta la sua natura fatta di frutti maturi (albicocca su tutti) poi la parte erbacea molto selvatica, un qualcosa di piacevolemente etereo sullo sfondo. Il primo assaggio dà subito prova di classe, ciò che mi ha colpito è la fusione della rusticità con la raffinatezza di un vino che riesce ad essere "grasso" ma non pesante, serio ma sbarazzino. La mineralità è sottile ma è abbondantemente corroborata dall'eleganza generale data da una morbidezza che a questo punto della vita del vino è presente con una certa austerità. 

Successivamente, dopo una buona mezz'ora di respiro nel bicchiere, arrivano evidenti note olfattive di zafferano mentre il bouquet fruttato si amplia, e dal punto di vista gustativo l'equilibrio tra le parti sembra aver raggiunto il top, con la sapidità che ha trovato lo spazio che inizialmente sembrava andarsi a cercare. E si resta con la sensazione che il vino possa ancora regalare emozioni negli anni a venire, magari evolvendo lentamente in tante sue piccole particolarità.

Fama quindi assolutamente meritata per questa cantina che dimostra come lavorando in maniera rispettosa della natura da sempre, si possano ottenere grandi vini anche da vitigni non blasonati come il neutro Trebbiano che grazie a quelli come loro viene portato a livelli altissimi. Tra i 20 e i 25 euro, un investimento da fare per chi sa godersi un grande vino senza voler essere "invaso" da opulenze legnose ed iperalcoliche, Con il consiglio di procurarsene almeno due bottiglie per apprezzare la seconda dopo una paziente attesa. Ne vale la pena.

lunedì 2 febbraio 2015

Boutonniere Vin de France - Mondon Demeure

Lo premetto, questo è un post fuori stagione. Me lo volevo lasciare per i primi caldi, o addirittura per le notti d'estate, quelle in cui si può chiudere la giornata festeggiando con un barbecue sotto le stelle. Ma poi non ce l'ho fatta, non ho resistito, per questo vino non potevo aspettare così tanto. E poi in fondo, un vino come questo non può essere relegato ad una sola stagione, perchè è buono sempre, con ogni temperatura, con ogni occasione, direi quasi con ogni piatto (ma esagerei).

Date le premesse forse in molti penseranno che io stia parlando di un bianco fresco e tranquillo. E invece no. Parlo di Gamay, vitigno che mi regala tantissime sensazioni e che quasi mai mi delude. E soprattutto parlo del Boutonniere, rosso sbarazzino di Mondon-Demeure, situata nel Forez, geograficamente parte del dipartimento francese Rhone-Alpes (quello di Lione, per intenderci).
 Si tratta di una zona il cui microclima è dato dall'influenza del fiume Loira e dalla presenza di massicci montuosi in abbondanza. I terreni in gran parte vulcanici completano un quadro ottimale per la viticoltura, qui praticata soprattutto da piccoli artigiani che senza l'ausilio di grande forza economica lavorano in appèlation poco note ed ai margini della grande distribuzione.

Questo è anche il caso di Christiane e Daniel Mondon e Vincent Demeure che insieme nella loro vigna di sei ettari scarsi producono 40000 bottiglie l'anno di vini tutti da godere, senza utilizzare materiale chimico in vigna e fermentando il tutto con i lieviti indigeni, senza solforosa e senza controllare la temperatura in cantina. Infine, i vini non subiscono alcun tipo di filtraggio. Il vino in questione, il Boutonniere, al Gamay protagonista sono affiancate una decina di varietà locali riscoperte in vigna. La particolarità di questo vino è la vinificazione che avviene per 20 giorni in un contenitore in fibra di vetro con parte dei raspi e poi successivamente trasferimento in botte dove rimane 8 mesi.

Voi direte: allora si tratta di un rosso pesante, che c'èntra il clima estivo? Invece la sorpresa è che al sapore intenso e profondamente tradizionale, si contrappone una leggerezza, una bevibilità, un piacere semplicemente straordinari. Naso con spezie e frutti rossi, sfondo vanigliato, in bocca la mineralità, il tannino gentile, l'equilibrio. Vino che si può bere tranquillamente anche fresco. Abbinamento straordinario per la carne rossa alla brace, ma regge senza problemi anche delle carni salsate o perchè no un bel ragù. Quindi prendete quel fuori stagione come un mio ricordo personale, visto che questo è per me IL rosso per l'estate. Ma provatelo anche col freddo, Si gode alla stessa maniera,

lunedì 19 gennaio 2015

Marc'Aurelio - Crocizia

Bevo i vini di Crocizia con soddisfazione da qualche anno ormai. Gira che ti rigira nella mia cantinetta ci sono sempre delle bottiglie di questa piccola cantina del parmense, con appuntamenti fissi immancabili come la Z'nestra all'arrivo dell'estate o uno dei loro rossi per il periodo natalizio.  I loro vini sono sinceri e genuini, ogni anno hanno delle caratteristiche che li differenziano dal precedente, sanno esprimere la storia che hanno dietro e si bevono con facilità ed interesse. E soprattutto, sono buoni. Non l'ho specificato ma i vini qui sono prevalentemente rifermentati in bottiglia, come da tradizione del territorio, e tutti fatti senza fronzoli, il che significa territorialità non contaminata da nulla che non sia proprio della vigna e dell'uva, con pochissima solforosa aggiunta. I vitigni presenti sono Malvasia, Sauvignon Blanc, Croatina, Barbera, Pinot Nero e Lambrusco Maestri. Ed è proprio dell'etichetta che vede protagonista quest'ultimo in purezza che vi voglio parlare.


Il Marc'Aurelio è un Lambrusco che non stanca mai. Fitto rosso rubino, spuma leggerissima, esprime subito la freschezza olfattiva per poi tirar fuori note fruttate e leggermente balsamiche con la permanenza nel bicchiere e con il crescere della temperatura (non servitelo ghiacciato come molti fanno con un lambrusco, lo mortifichereste). Il sorso è assolutamente godereccio, di perfetto equilibrio tra acidità e sapidità, col tannino in lontananza che fa da cornice ad un gusto rotondo ma allo stesso tempo sbarazzino. Difficile resistere a lungo senza fare il bis.
Questo vino si può abbinare a tutto tondo a pasti a base di affettati e ciò che li accompagna di regione in regione (tigelle, piadine, focacce, bruschette, ecc) o a paste al forno classiche (lasagna su tutte) ma l'abbinamento classico è per il pranzo natalizio a base di cappelletti in brodo con bollito a seguire. Non solo per sgrassare ma per completare un momento di assoluta gioia di vivere. Prezzi assolutamente irrisori e tanti elogi per la disponibilità della versione magnum che rende ancora più giustizia ad un vino che non dovreste farvi scappare. 

domenica 18 gennaio 2015

Macon-Lochè 2012 . Celine et Laurent Tripoz

Dopo una lunga pausa a cavallo del periodo natalizio, ritorno a parlare di vino. In questi giorni si sono stappate tante bottiglie, più del solito, e le occasioni per provare abbinamenti particolari non sono di certo mancati. La serata della vigilia, quella in cui la tradizione vuole il pesce protagonista, è stata quella che mi ha dato più spunti soddisfacenti e soprattutto una conferma ulteriore di quella che è per me al momento la cantina dove pescare a botta sicura senza mai rimpiangere di averlo fatto.

Parlo della cantina di Celine e Laurent Tripoz, coppia di vignaioli della bassa Borgogna, dei quali ancora devo assaggiare un vino che non mi abbia fatto venir voglia di finire la bottiglia in tempi brevi. La loro zona di produzione è il Macon, che è anche la DOC più ricorrente nelle loro etichette anche se non sono per niente da trascurare i vini provenienti da Aligotè, sia fermi che rifermentati in bottiglia (Bourgogne Aligotè il primo, Vin de France il secondo). Per chiudere la panoramica sulla loro gamma, al di fuori dell'AOC Macon è da consigliare anche un ben fatto Crèmant de Bourgogne, metodo classico della regione, elegante e gustoso. 

Ma in questo caso parlo del loro bianco fermo che io in assoluto preferisco, cioè il Macon-Lochè, 
ottenuto esclusivamente da Chardonnay.

 Lochè è proprio il villaggio dov'è situata la cantina dei Tripoz, ed il vino che si avvale della sua sottodenominazione è il loro Chardonnay base. Vinificato in acciaio con fermentazione spontanea, senza contatto con le bucce e minima anidride solforosa aggiunta, è un vino che riesce a coniugare personalità con tipicità del territorio. Classico nell'aspetto, ha un naso molto varietale appena aperto ma che cresce esponenzialmente con un minimo di aerazione. Tra note di pera e di agrumi, si avverte una maturità del frutto ed un'intensità olfattiva degne dei bianchi delle  nobili vigne situate più a nord della regione. Sensazioni confermate da un gusto impeccabile, dominato da una raffinata mineralità e da una pastosità che avvolge il palato. Bella freschezza e stupendo ritorno delle sensazioni olfattive nel retrogusto che trionfa in piacevolezza.

Scordatevi la banalità di molti Chardonnay in commercio, qui siamo sull'autenticità di un vitigno in uno dei suoi territori prediletti, trattato con cura e rispetto da vignaioli preparati che hanno scelto da tempo la via della biodiamica (certificata Demeter) per preservare le loro uve dalle quali tengono lontano ogni tipo di prodotto chimico, Il Macon-Lochè di Tripoz, in vendita in Francia a 10 euro scarse, è un vino che è l'emblema della semplicità fatta arte, elevando al massimo prodotto e territorio d'eccellenza, dando alla Borgogna uno spazio d'onore nei bianchi quotidiani. Abbinamento eccellente con quasi tutti i piatti di pesce che vi vengano in mente, è capace di esaltare anche formaggi di mucca a media stagionatura. Buon anno!

domenica 21 dicembre 2014

Falestar - Bortolotti

La bellezza dei vini quotidiani sta nel loro modo di esprimere non solo un territorio, ma un modo di vivere. Bevendoli si entra nelle abitudini dell'operaio in pausa pranzo, della famiglia riunita a cena, della scampagnata nel giorno di festa, nel profumo delle pietanza in cottura. Momenti simili in ogni regione, differenziati dal vino che va a finire nel bicchiere, di solito il simbolo di quella parte del mondo, un umile quanto importantissimo vanto che ogni paesano sente un pò suo. 

Purtroppo questa bellezza ha subito tanti ed ahimè spesso riusciti tentativi di offuscamento da parte della produzione seriale che ha ridotto etichette storiche a lontane fotocopie di ciò che erano in origine, per accontentare la grande distribuzione e lucrare il più possibile facendo della tradizione un mero business. Alcuni vini sono addirittura scomparsi o quasi, di altri per anni si è persa quella che era la loro vera identità. Un vino che potrebbe rientrare in entrambe queste categorie è il Pignoletto: vitigno storico dei Colli Bolognesi, è l'alternativa bianca ai frizzanti rossi dell'Emilia, ma è buono anche quando è vinificato fermo. Sempre prodotto in quantità limitata alla regione, è stato sostanzialmente vittima dell'invasione dei brutti prosecchi o simili, e quel poco reperibile sembrava essersi adeguato a quella corrente.

Ma non bisogna mai disperare, perchè silenti nella loro piccola cantina ci sono sempre degli artigiani "pazzi" che ci credono, ed il crescente movimento dei vini naturali ha trascinato alcuni di loro ad uscire allo scoperto, rendendo possibile a noi consumatori l'approccio con pignoletti di ottima fattura. Chi che me lo ha fatto riscoprire ed amare è stata senza dubbio Maria Bortolotti. che in realtà lavora sul suo vigneto a Zola Predosa dal 1987, in maniera seria e rispettosa della natura, con la passione che la porta ad imbottigliare vini fuori dalle regole, personali, espressivi e mai banali.

Di tutta la sua interessante gamma, dalle etichette con nomi fantasy, non riesco a star lontano dal Falestar, il Pignoletto rifermentato in bottiglia che è una goduria assoluta. I suoi lieviti sono presenti come da tradizione del metodo ancestrale, vinficazione classica in bianco e solforosa ai minimi livelli. Secco e lievemente aromatico, la sua delicatezza è la sua forza, spinta anche da una bella acidità, Con i suoi 12 gradi abbondanti non è di certo un vino pesante ma ha la forza giusta anche per essere aperto a tavola. Di sicuro la cucina familiare bolognese, a partire dagli affettati e dalle tigelle, ne saprà esaltare tutta la piacevolezza. Poche bottiglie prodotte, prezzo assolutamente irrisorio (meno di 10 euro) e scommessa vinta. Cercatelo, apritelo, godetevelo. E per chi non lo ha già fatto, scordatevi certi tristi prosecchi. Buone feste!

domenica 14 dicembre 2014

Nigrum 2011 - Podere Veneri Vecchio

Dice "eh ma l'aglianico è il barolo del sud", oppure "no io l'aglianico non lo considero proprio", e ancora "l'aglianico va bene se ci mangi piatti pesanti ed abbondanti". Sarà, ma io in questi anni di assaggi ho capito due cose sull'aglianico: che è un vino di cui si "dice" troppo e che soprattutto si bevono troppo spesso gli aglianici sbagliati. Tutto il resto è un mistero, ma un mistero bello, da scoprire con curiosità ed entusiasmo, come le zone in cui questo vitigno dà il suo meglio, dal Vulture al Taurasi, dal Molise al Sannio. Zone che non fanno nulla per farsi piacere ma che hanno tanto per essere amate.

Oggi mi soffermo proprio nel Sannio, per un aglianico del beneventano prodotto da una delle cantine più interessanti in cui io mi sia imbattuto negli ultimi anni: il Nigrum di Podere Veneri Vecchio.

Raffaello Annichiarico, l'agronomo e deus ex machina dell'azienda, non utilizza giochi di parole o aforismi, e non ha paura di etichette per descrivere i suoi vini. Li chiama vini naturali, perchè "il presupposto della cantina è quello di salvaguardare la terra, le piante e l'uomo lavorando con prodotti che non compromettono l'ambiente nella sua più ampia concezione". Il concetto del tempo è spesso sottolineato quando si parla di viticoltura e produzione di vino in generale, laddove si concepisca come attesa, pazienza, o svolgimento di fasi della vita. Un approccio filosofico e poetico che rende le parole per descrivere i vini assaggiati poco consone per darne un senso totale. Ci provo comunque, perchè qui si lavora bene, e ciò che finisce nel bicchiere è sempre di piacevolezza ed interesse unici.

Il Nigrum si potrebbe definire l'aglianico "base" della cantina, seppur non si debba pensare ad un vino incapace di invecchiare o tanto meno destinato ad un uso blando. Parliamo comunque di un cru dal vigneto di Castelvenere, a 250 m sul livello del mare, contatto sulle bucce per circa trenta giorni, lungo affnamento in acciaio e passaggio finale in barrique usate. Ovviamente lieviti indigeni per la fermentazione ed in cantina (seminterrata) il fresco è garantito naturalmente, senza controllo della temperatura. Se ne ottiene un aglianico di spiccata acidità, evidente nota terrosa e frutto che sembra quasi proteggersi in una cupa membrana fatta di note inchiostrate, vinosità e sottobosco. E' un vino che si fa bere con estrema facilità e che cerca il cibo senza essere troppo pretenzioso. Versatile a tavola, io l'ho apprezzato sia con pasta al forno che con il bollito di manzo.

Insomma, il Nigrum non vi svelerà i misteri dell'aglianico e sicuramente non vuole farlo. Bevendolo potrete assaporare tutta l'essenza di questo vitigno e del suo territorio, capaci di spiazzare, sorprendere e sopratutto, farvi stare bene.