mercoledì 29 dicembre 2010

Il Lambrusco di Camillo Donati


Se è vero che il vino è figlio della natura e l’uomo può solo rovinarlo, il Lambrusco ha un conto aperto con l’umanità. Non solo perché è una tipologia svilita e maltrattata ma soprattutto perché l’approccio al Lambrusco è raramente fatto con equilibrio. Il bevitore “colto” dai gusti sofisticati lo giudica una zozzeria, una perdita di tempo, una roba da sciaquabudella. Il bevitore radical-chic, al contrario, lo esalta in maniera spropositata, elevandolo a grandissimo vino, seguendo le mode (si, i radical-chic seguono parecchio le mode) di alcuni produttori che lo fanno morbido, setoso e sbrilluccicante. Poi c’è la massa generica, quella che si accontenta di ciò che gli offrono, cioè quei lambruschi schiumosi dall’imbarazzante residuo zuccherino che fanno rimpiangere un buon chinotto.

Invece il Lambrusco, quello vero, è tutt’altro. Innanzitutto è lo specchio di un territorio e nel senso più largo del termine, perché rispecchia non soltanto le caratteristiche varietali del vitigno (anzi dei vitigni, perché sulle diverse varietà di Lambrusco sarebbe interessante scrivere un bel libro) o delle vigne su cui nasce. Il Lambrusco prima di tutto rispecchia la gente che lo fa ed anche quella che lo beve, gente delle campagne emiliane, spesso contadini, operai o semplicemente persone del posto che se lo godono al bar, giocando a carte, mangiando un panino o affettando un salame. Il Lambrusco non è necessariamente vino da calice  ballon a lungo stelo da tenere con due dita, si trova più a suo agio nel classico bicchiere svasato da osteria. Insomma, senza cadere troppo nella retorica, è vino da merenda nella migliore accezione della definizione, deve far compagnia e deve accompagnare i momenti normali della vita. Il Lambrusco non vuole essere grande, si sente bene così com’è: schietto, profumato, soddisfacente. Ma non banale.

E’ da questo ultimo punto che sono partiti un gruppo di intrapredenti viticoltori che da una ventina d’anni a questa parte continuano ad espandersi, dalle diverse zone emiliane fino ad arrivare al basso mantovano, con lo scopo di fare Lambrusco buono, sincero, lontano dalle troppe banalità che lo hanno circondato per tanto tempo. Tra questi un Lambrusco che suo malgrado è diventato un cult è quello di Camillo Donati, produttore biodinamico di Arola, nel parmense, che si segnala anche per il resto della sua produzione, tesa quasi esclusivamente alla produzione di vini frizzanti naturali, anche con vitigni non propriamente abituati a questo ruolo come il Sauvignon Blanc o il Cabernet Franc. Io non so se quello di Camillo Donati sia il miglior Lambrusco in commercio come molti sostengono, non ho le basi per dirlo in quanto non ho assaggiato molti dei prodotti che vengono considerati all’unanimità come archetipi per la tipologia. Lini e Bellei, tra quelli più reperibili, mi sono piaciuti molto. Ma nel Lambrusco di Donati trovo qualcosa di particolare, qualcosa che mi fa associare in maniera ancor più netta questo vino alle sue terre di provenienza.

Il biotipo di Lambrusco utilizzato in questo caso è il Maestri, nato e cresciuto nel parmense, trattato da Camillo Donati con estrema cura, potature severe, basse rese. Il risultato è un vino la cui effervescenza, presente ma poco più che accennata, fa da apripista all’eleganza globale dell’olfatto prima e dell’assaggio poi. Note scure, tra terra e bagnata e frutti di bosco, un nonsochè di speziato, un filo di vegetale. Poi gran ricchezza al palato, impressiona la qualità del tannino così come la sua acidità a corredare una struttura di tutto rispetto. Gustoso, ritornano le note olfattive nel bel finale, si fa bere in un amen ed è una di quelle bottiglie che non deve essere mai acquistata singolarmente perché il rischio che una non basti è più che frequente. Il produttore consiglia di berlo a 18 gradi, come un rosso fermo e forse non ha tutti i torti perché le sue qualità gusto-olfattive, pur rimanendo tipiche, non hanno nulla da invidiare a vini più nobili. Io l’ho bevuto a temperatura un po’ più bassa sul pranzo di Natale, composto sostanzialmente da cappelletti in brodo, bollito con verdure e salumi e formaggi a chiudere. Avevo fatto la stessa scelta per il Natale precedente e francamente trovo difficile trovare un abbinamento più adatto per piatti del genere. Ma andrebbe benissimo anche con paste ripiene tipo lasagne o cannelloni o perché no su carni rosse elaborate. Oppure potreste berlo con un bel panino al prosciutto. Perché il Lambrusco fatto bene è anche un bel jolly a tavola. Quello di Camillo Donati poi a 10 euro in enoteca è una vera chicca da non lasciarsi sfuggire. La prossima volta che vi chiedono un Lambrusco, provate con questo. Se non piace, chiamatemi. Vi offrirò un chinotto.




lunedì 27 dicembre 2010

Coboldo 2007 I Pàmpini


Le guide sui vini sono utili, cerco sempre di tenerne in casa almeno una dell’anno in corso, spesso sperando in qualche regalo altrui. Perché alla fine delle guide io in realtà mi fido poco, le utilizzo soprattutto per alcune informazioni pratiche o logistiche o semplicemente per avere notizie sui vini a portata di mano quando non c’è internet in giro. Al di là dei discorsi delle lobby di alcuni marchi e degli scandali su presunte mazzette richieste/ricevute da certi produttori per ricevere più punti, più stelle o più bicchieri, quello che non mi piace è l’approccio molto radical-chic che troppo spesso tiene conto di tutto tranne che della sostanza.

Però c’è un punto su cui le guide quasi sempre concordano e sul quale devo – a malincuore – allinearmi: la bassa qualità media dei vini del Lazio. Punto con cui mi allineo a malincuore per due motivi sostanziali. Il primo è che si tratta della mia regione ed il secondo è che parliamo di una zona potenzialmente eccellente per la produzione di grande vino, dotata di grande diversità di territori, tutti storicamente vocati. Basti pensare ai terreni vulcanici dei Castelli Romani, ai calanchi dell’alto viterbese o ancora alla zone semi-montagnose nel frusinate. Poi i mille vitigni autoctoni, molti dimenticati come il Tor de Passeri o l’Albarosa, altri mal sfruttati come il Bombino, il Cacchione, il Nero Buono, altri da un po’ in ripresa come il Grechetto o il Cesanese.

Ma il Lazio ha dimostrato di essere talmente versatile da poter produrre buone cose anche con i vitigni internazionali, in particolar modo quelli a bacca rossa. Non è un caso che Casale del Giglio, l’azienda di punta del panorama regionale abbia puntato su Syrah, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot per farsi strada in Italia e nel mondo. E l’azienda di cui parlo oggi si trova proprio nello stesso terroir , quell’agro pontino che è un mix di contraddizioni, con il mare a due passi eppure profondamente legato all’entroterra, nei sapori e nei colori. Si tratta de I Pàmpini, cantina giovanissima, acquisita nel 1999 dai coniugi Oliveto ed attiva dal 2005 con la produzione di diverse etichette sia di rossi che di bianchi, con vitigni internazionali e non.

Non potrebbero essere più diversi dai loro quasi dirimpettai di Casale del Giglio: gestione familiare, agricoltura biologica certificata, produzione minima per vini senza fronzoli, di territorio, quasi sempre da tutti i giorni, anche nelle etichette, molto semplici, quasi naif. Di tutta la loro gamma mi hanno colpito varie cose, tra cui il Maroso, uno splendido Cacchione in purezza con un breve passaggio in barrique, ottimamente amalgamato in una materia grassa e gustosa. Ma con la proprietaria Carmen siamo stati d’accordo su quello che in questo momento è il loro vino più in forma, cioè il Coboldo dell’annata 2007.

Il Coboldo è un Merlot in purezza e con questo vitigno si rischia sempre di cadere nel banale, magari facendo il solito vinello simpatico, bevibile ma che si potrebbe tranquillamente confondere con altri mille Merlot. Nel caso del Coboldo le cose sono diverse. Affina solo in acciaio, è concepito come vino semplice (costa meno di dieci euro in enoteca) ma affonda le sue note fruttate in un tocco di salmastro, di aromi mediterranei, sanguigni. Un bel chiaroscuro di sensazioni olfattive che al palato risultano trasportate con una bella dose di eleganza, soprattutto nei suoi tannini decisi e in una degna acidità. L’annata è stata molto buona ed il vino dopo tre anni abbondanti dal suo imbottigliamento è un piccolo gioiello che può regalare ampie soddisfazioni a tutto pasto, con un azzardo personale sul classico abbacchio al forno con patate.

Questa è un’azienda da tenere d’occhio, una tra quelle che stanno lavorando seriamente ed in silenzio per fare crescere una viticoltura regionale prigioniera da troppo tempo dei grandi numeri che vanno quasi sempre a discapito della qualità. Spero vivamente di poter parlare di nuovo di loro, così come di altri produttori del Lazio in grado di regalarci belle emozioni. Se lo meritano di sicuro.

mercoledì 22 dicembre 2010

Vosne Romanèe 2004 Confuron-Cotetidot


Avvertenza tardiva ma sempre valida: in questo blog saranno molto frequenti post riguardanti la Borgogna. Regione in cui per altro non sono mai stato, lacuna che non mi perdono e spero di riparare al più presto possibile. Per ora mi devo accontentare di conoscerla tramite i suoi vini, pratica che per altro occupa il podio perpetuo tra i piaceri della mia vita. Nel post precedente ho parlato soprattutto di bianchi, gli eccellenti Meursault di Albert Grivault. Stavolta tocca ad un rosso, un semplice village, cioè non un cru, ma una denominazione base, per quanto nobile come Vosne-Romanèe vista da Confuron-Cotetidot.

La bottiglia era in cantina da un paio d’anni (laddove la cantina è l’angolo più sfigato di una stanza della casa, dove arriva poca luce e gli sbalzi di temperatura sono limitati ma fa figo dire “in cantina”) e probabilmente ci poteva rimanere per almeno altrettanto, solo che era un po’ che non aprivo un rosso borgognone e la giornata, fredda con tendenza al gelido, sembrava proprio quella adatta. Anche se ancora devo trovare un momento non adatto per aprire una bella bottiglia.

Da Confuron-Cotetidot c’è la tendenza a vendemmiare le uve molto mature, tendenza ultimamente diffusa ed abusata da chi vuole ottenere vini iperconcentrati, alcolici e con un residuo zuccherino palpabile. Spesso questa pratica diventa il miglior viatico per dare al vino quelle sembianze un po’ truccate che si traducono in potenza alcolica, colore acceso, retrogusto dolciastro. Solo in determinati casi ci si può permettere di vendemmiare tardivamente senza compromettere l’autenticità del prodotto. Uno di quei casi è dentro il mio bicchiere, frutto di un eccellente qualità dell’uva e di un intelligente lavoro in vigna prima ed in cantina poi. Solo così l’effetto sputtanamento si evita.

Pinot Nero ovviamente, vitigno che in tanti amano ed in troppi inseguono senza arrendersi all’evidenza che è solo ed esclusivamente in terra di Borgogna dove potrà esprime al meglio tutta la sua testardaggine e non me ne vogliano alcuni eccellenti prodotti altoatesini o del lontano Oregon. Eppure questo è un village, i territori d’eccellenza della regione sono altri, le superstar della Borgogna famose nel mondo non si mischiano ad un semplice Vosne-Romanèe base. Ma certe volte per apprezzare un nobile vitigno in un nobile territorio serve proprio la semplicità. Confuron-Cotetidot ce la serve in un piatto – pardon, in un bicchiere – d’argento.

Vigna e cantina condotti con metodi naturali portano nel calice il classico rubino svogliato del Pinot Nero, niente concentrazione esagerata, niente lucentezza. Una tendenza al rosso scarico che porta il segno inconfondibile del vitigno borgognone. Al naso è rigoroso nella sua intensità, richiama proprio alla terra, alle note animali ed ematiche, alle spezie scure. Un olfatto cupo che incanta ed affascina e che muta nel bicchiere con i minuti e le ore, facendo prevalere di volta in volta un sentore su un altro senza mai perdere la sua buia identità. Quando si beve tutto ritorna anche se in maniera meno esplosiva, è avvolto da una bella freschezza e da un tannino di estrema eleganza. Sembra volersi far un po’ cercare nel suo finale minerale non lunghissimo, unico attimo in cui ci si ricorda che questo è un base e che i cru non sono tali per caso. Ma è di una beva spaventosamente facile, cosa di non poca importanza per una tipologia che attinge da un vitigno e da un terroir dalle caratteristiche tutt’altro che luminose.

Che dire, la mia visione mi impedisce di dare un giudizio imparziale ma io bevendo vini come questo, sinceri e non perfettini, rientro a contatto con i piaceri della vita e me li godo in ogni forma possibile. Provatelo con un ragù di cinghiale, con un pollo ruspante coi peperoni o semplicemente col vostro formaggio stagionato preferito. E per un po’ dimenticatevi dei vostri problemi.

lunedì 20 dicembre 2010

Barolo Chinato Teobaldo Cappellano


Svilire un’intera tiplogia di vino è una missione che la produzione di massa ha portato a termine facendo parecchie vittime illustri. Il Prosecco, il Lambrusco, il Chianti, il Verdicchio, il Vermentino. E potrei proseguire. Ogni stagione c’è un nuovo malcapitato succube di un mix letale di moda, incompetenza, business e mancanza di rispetto per la tradizione e per la passione dei vignaioli seri. Troppo spesso si sente dire ad esempio “a me il Lambrusco non piace” e quando io rispondo “ma tu hai mai bevuto un Lambrusco vero?” si apre un mondo sconosciuto ai più.

Ma lottare contro i mulini a vento della grande distribuzione è una scelta difficile e faticosa. In fondo se tutti hanno accettato che il Prosecco debba essere quasi zuccherino, leggero e carico di schiuma, perché discostarsi da tale assioma? Invece per fortuna ci sono produttori che con coraggio e naturalezza lavorano per ottenere prodotti che abbiano la loro personalità, il loro gusto territoriale e tradizionale. Ora sembra esserci un nuovo nobile obiettivo nel mirino dei globalizzanti: il Barolo Chinato, che poi alla fine se vai a guardare proprio vino vino non è.

Da quando si è imparato che con il cioccolato si può bere anche altro oltre al latte o all'acqua liscia, il Barolo Chinato ha ritrovato parecchi fans. Infatti, rimanendo sull’abbinamento col cioccolato, il Porto ed il Rum hanno sempre avuto un seguito di appassionati che magari è aumentato per lo stesso motivo ma che comunque è sempre esistito. Il Barolo Chinato invece è un prodotto di nicchia a cui forse piaceva pure rimanere tale, quasi a ricordare le sue origini artigiane da medicinale casalingo. Invece ora si cominciano a vedere dei chinati di indubbia origine accanto a passiti altrettanto bizzarri sugli scaffali di molti supermercati (per inciso, io non avrei nulla contro i supermercati, anzi mi piacerebbe poter andarci e scegliere liberamente un buon vino tra la loro selezione: il problema è che al momento il 99% dei loro prodotti è del tipo descritto finora). Detto questo, per fortuna la situazione del Barolo Chinato non è ai livelli dei vini citati in precedenza ed i produttori seri sono ancora la maggior parte. Ma è quasi unanime il coro che stabilisce quale sia il numero uno tra questi nettari: quello di Teobaldo Cappellano.

Teobaldo è morto due anni fa e nell’ultima parte della sua vita aveva partecipato attivamente ad associazioni che tutelano i vini naturali. I suoi rossi fermi, su tutti Dolcetto e Barolo, sono sempre stati noti per la loro fermezza e la loro austerità. Ma non vi è dubbio che il prodotto per cui Cappellano è più apprezzato è il suo stupendo Barolo Chinato. Base di vino Barolo aromatizzato esclusivamente con corteccia di china naturale, questo nettare emana dei sentori inconfondibili che partono dal balsamico e dal mentolato passando per i frutti scuri, la liquirizia e la terra bagnata, il tutto racchiuso in quell’inchiostrato tipico della china. Il suo rosso rubino semi-trasparente si trascina al palato avvolgendolo regalando sensazioni dolci-amare, riempiendo la bocca senza anestetizzarla, facendola quasi accarezzare da quella nota alcolica che diventa lieve in deglutizione. Il gusto rimane a lungo e richiama un sorso dopo l’altro a prova del suo equilibrio. I vini aromatizzati possono spesso stancare ed essere stucchevoli, qui invece è l’assoluto contrario. C’è il rischio concreto di fare bis e tris (ed attenzione:nascerà pure come medicinale, ma ha il suo 18% d’alcool).

Se cercate un abbinamento oltre al cioccolato fondente, vedete voi. Dando per scontato che non è un vino da pasto o tanto meno da aperitivo, a me quello che fa venire in mente è un dopo cena d’inverno con il plaid addosso o per chi è fortunato davanti al camino acceso, magari leggendo un libro, vedendo un film o ascoltando un disco. O semplicemente chiacchierando tra amici. Se poi volete provarci un buon sigaro o un erborinato come si deve, non credo ve ne pentirete. E tenete ben presente che un Barolo Chinato una volta aperto può anche durare a lungo e mantenersi vivo se ben conservato. Quindi spendeteci qualche euro in più e prendetene uno fatto bene.

giovedì 16 dicembre 2010

I Meursault del Domaine Albert Grivault


Se la mia vita dipendesse da un vino probabilmente sceglierei un Borgogna bianco. Lo so, sto puntando in alto ma per citare il grandissimo Don Pasta (se non avete ancora il suo Wine Sound System mollate tutto ed andate subito in libreria a prenderne una copia) “gli unici soldi che ho rimpianto per la Borgogna sono quelli che non ho speso”. D’altronde lo Chardonnay da quelle parti ha l’anima che non si trova quasi più nei vini fatti altrove con questo vitigno, il più diffuso del mondo tra i “bacca bianca”. A descriverlo a parole, il vino bianco di Borgogna non si comprenderebbe. Bisogna berlo, osservarlo, annusarlo, lasciarlo riposare e magari berlo di nuovo per poterlo capire pian piano. E meglio ancora se tutto questo viene fatto dopo qualche anno di sonno in cantina: ai bianchi borgognoni non piace essere svegliati presto, devono crescere, devono evolvere la loro mineralità e le loro complessità.

Poi non tutti i bianchi di Borgogna sono uguali, ci mancherebbe. Impossibile in una zona così maniacalmente suddivisa in territori le cui caratteristiche variano anche se sono a pochi metri l’un dall’altro, tanto da dare vita ad una miriade di denominazione e di sottozone da perderci la testa. E se è innegabile che la Cote de Beaune sia il paradiso per lo Chardonnay, ci sono poi mille pareri su quale AOC (la nostra DOC) sia la più sublime. La storia dice Montrachet ed i suoi satelliti ma a giocare la parte degli outsider ci sono almeno altre due eccellenze: Corton-Charlemagne e Meursault. Con quest’ultima ad avere un asso nella manica non da poco, cioè un prezzo medio piuttosto inferiore rispetto alle altre contendenti.

E i Meursault del Domaine Albert Grivault sono stati i protagonisti della serata organizzata da Comptoir de France, insostuibile tempio di ghiottonerie francesi che ha un posto nel cuore di tutti i gastronauti romani e milanesi. Alla presenza del produttore, socievole ed alla mano, sono stati degustati diversi prodotti dell’azienda. Si è cominciato con il base delle basi, il Bourgogne Blanc 2008, quella denominazione regionale la cui vastità impone che si conosca quale produttore ci sia dietro al vino imbottigliato, pena una grossa delusione. Un vino dove si distinguono subito l’eleganza e la purezza del frutto tipici dei vini di Grivault, in questo caso a far da corredo ad una piacevole semplicità. Ottimo vino per aprire il pasto un po’ penalizzato dal ricarico dovuto dall’importazione: quasi 20 euro, una cifra con cui si possono trovare bianchi migliori, anche rimanendo in Francia, forse persino in Borgogna stessa.

Nell’assaggiare il 2007 ed il 2008 del Meursault Villages si è potuto capire in un istante quanto l’annata può influire sul prodotto finale. Due vini molto diversi l’uno dall’altro, con il 2007 più chiuso e nervoso, con l’acidità in grossa evidenza contro un 2008 più muscoloso e profondo, dall’acidità ben più amalgamata nell’insieme. La liaison la fa l’eleganza in due vini di classe ed entrambi adatti a piatti delicati e complessi. Costano poco meno di 40 euro ma in questo caso li valgono tutti, con il 2008 già godibile da ora ed il 2007 che invece chiede ancora qualche anno prima di aprirsi al meglio.

Con il Perrières Premier Cru 2007 si è percepito netto il salto di qualità, pur riservando una dovuta cautela nel giudizio data l’innegabile gioventù del vino in questione. Ma nella materia si svela subito la sua grassezza, la sua nobile mineralità, il suo sfondo fruttato. Acidità da matti, indice di un mantenimento in cantina che non può essere inferiore a dieci anni ma se si raddoppia è ancora meglio. Costa 50 euro ma parliamo di un all-star assoluto.

Il superstar della serata ed il top di gamma di Grivault è il Clos des Perrières, vigna monopole (nel senso che Grivault è l’unico proprietario in questa particella di terreno e quindi l’unico che può produrre in questa AOC) dalla quale abbiamo degustato l’annata 2007. Sicuramente un passo in più rispetto a tutto il resto a livello di complessità e di densità, la mineralità e l’eleganza sono sempre lì a sottolineare territorio e stile, anche se tutto al momento è comprensibilmente relegato dietro un’imperante acidità e ad una tendenza alla chiusura che sembra quasi la portavoce di una protesta legittima per aver osato stappare il vino così presto. Se avete un posto dove mantenere una bottiglia per almeno una quindicina d’anni (e soprattutto se avete la pazienza di aspettare) spendete 60 euro per questo vino: non ve ne pentirete.

Nel finale Grivault ci ha anche mostrato la sua bravura con il rosso, con il gustosissimo Pommard Clos Blanc 2007 (Premier Cru) con le tipiche note terrose ed animali del Pinot Nero nel suo regno, insieme ad un tocco speziato ed alla consueta eleganza: un degno finale per una bella serata. La Borgogna ed i suoi silenziosi quanto enigmatici protagonisti, umani e liquidi, lasciano sempre sognanti. Con mille ringraziamenti allo staff di Comptoir ed al signor Bardet del Domaine Grivault, pronto a rispondere a tutte le domande, molte delle quali incalzanti da parte di un pubblico incredibilmente coinvolto. Chapeau.

lunedì 13 dicembre 2010

Dieci spumanti intorno ai quindici euro.


Pochi giorni fa nella cassetta della posta ho trovato uno di quei volantini di offerte dei supermercati, quei pamphlet che nel periodo prenatalizio quintuplicano il loro volume e ti fanno credere che tutto sia proposto a prezzi stracciati, dai pacchi di pasta all’ammorbidente ai fiori di loto passando per smartphone e notebook. Bè, di questo in particolare mi ha colpito l’offerta di copertina, che riguardava il Ferrari Brut a 13 euri e 90 “massimo sei a testa”, così recitava la nota. Francamente non so se sia un prezzo buono o meno, non acquisto il Ferrari Brut da almeno dieci anni pur giudicando la Ferrari la migliore in Italia tra le aziende spumantistiche dai numeri industriali (il loro top di gamma, la Riserva del Fondatore millesimata rimane tra i migliori metodi classici italiani ed ovviamente il suo costo lievita oltre i sessanta euroni). Semplicemente trovo molto più accattivanti le proposte spumantistiche di produttori minori o che comunque non sfornano milioni di bottiglie all’anno come la mitica casa trentina. Ed infatti la prima cosa che mi è venuta in mente è che rimanendo intorno al prezzo proposto dal volantino ci saranno almeno dieci scelte più coraggiose che si potrebbero fare, solo allontanandosi dagli scaffali della grande distribuzione e magari chiedendo consiglio ad un bravo enotecario. Visto però che in questo periodo anche gli enotecari hanno un bel po’ da fare, ho pensato che stilare una bella lista di spumanti metodo classico che si possono acquistare intorno ai 15 euro potrebbe essere utile ed anche divertente. In fondo a Natale si beve spumante come non mai e questa è una di quelle abitudini che difficilmente si potrà eliminare ma almeno si può provare a migliorarla. Nella speranza che questi stupendi vini dalla cremosa spuma prima o poi diventeranno compagni non solo di festeggiamenti ma anche della vita quotidiana, a tavola e non solo. Mi raccomando però: sempre lontano dal dolce!

L’ordine che segue è casuale e non rappresenta né una classifica né una preferenza specifica:

1)      Erbaluce di Caluso Brut Calliope – Cieck
L’erbaluce è uno di quei rari vitigni che dà buoni risultati come vino fermo, passito e spumantizzato. Questa versione di Cieck e suadente ed elegante, dai toni floreali amalgamati ad una nuance mielata. E prometto di non usare mai più la parola nuance ma con l’erbaluce mi si risvegliano istinti poetici. Cercatelo.
2)      Cremant d’Alsace – Meyer Fonnè
Laddove non ci si può permettere lo Champagne, il francese medio vira sul Cremant d’Alsace. E con Meyer-Fonnè è un bell’accontentarsi. Dritto, minerale, cremoso, di lunga persistenza gustativa. Un grande spumante da pasto a poco più di 13 euro. Affare assoluto.
3)      D’Araprì Pas Dosè – D’Araprì
Spumantizzare il Montepulciano e il Bombino Bianco potrebbe sembrare una follia, farlo in Puglia in una cantina che ha scelto di fare solo metodi classici è un vero salto nel buio. Non per D’Araprì che da anni ha ormai una consolidata fama nel panorama nazionale degli appassionati e fa spumanti di grande spessore, piacevoli ed unici, come questo Pas Dosè. Se andate a fondo lo troverete in qualche enoteca. Non ve ne pentirete.
4)      Franciacorta Brut – Faccoli
Non sono un grande fan del Franciacorta, lo trovo mediamente un vino con poca anima e con troppa voglia di piacere per forza ed in più con un rapporto qualità-prezzo generalmente pessimo. E’ in casi come questi nei quali insisto nel cercare un’eccezione e quando la trovo sono particolarmente contento. Faccoli è una bella realtà che produce spumanti senza fronzoli, tirando fuori quel territorio che tra i suoi conterranei è spesso dimenticato. Uno Chardonnay di spessore con una carbonica per niente invadente ed una bevibilità infinita. E costa almeno due euro meno del Ferrari in offerta.
5)      Blanquette de Limoux “La Bulle de Limoux” – Aimery
A Limoux sostengono che il primo metodo classico lo abbiano fatto loro, altro che Champagne. Ma storia e storielle a parte, in questo spicchio di Francia meridionale si producono spumanti da secoli con il loro vitigno-simbolo, il Mauzac. E la tradizione si sente nella semplicità del sorso, nel suo dosaggio ben equilibrato, nella sua finezza generale. Ed ha anche una bottiglia di gran classe. Se vi presentate da amici con una di queste, li conquistate al volo.
6)      Brut – Haderburg
L’Alto Adige che non ti aspetti quello di Haderburg, dove i bianchi fermi, che pure si fanno e sono anche buoni, lasciano il parterre de roi agli spumanti, tutti fatti rigorosamente in maniera naturale, come il resto della gamma d’altronde. Il top è il loro Pas Dosè che però sfora il muro dei 20 euri, allora godiamoci questo base da poco più di 15 per capire cosa significhi interpretare uno spumante da abbinare a tutto pasto, senza limiti e senza piacionerie inutili. Quando ogni sorso ci regala qualcosa in più.
7)      Oltrepò Pavese Brut Rosè – Castel San Giorgio
Un rosato non poteva mancare e non poteva non venire dalla terra degli spumanti rosati italiani, quell’Oltrepò Pavese dove il Pinot Nero spumantizzato riesce ad avere un senso che non si legga Champagne. Castel San Giorgio produce solo un metodo classico, questo rosato che si fa prima ammirare per il suo colore tra il tenue ed il brillante, poi per un olfatto di classe e alla fine per il gusto allo stesso tempo complesso ed invitante, corredato da sapidità e morbidezza. Si trova con relativa facilità, approfittatene.
8)      Brut – Ca’ Roma
OK, tagliamo subito la testa al toro, questo non lo troverete. A meno che non passiate per la Valle del Mincio nel mantovano, terra dove si mescolano tradizioni provenienti dal Garda e dall’alta Emilia. Ma un’identità alquanto personale ha portato l’azienda a gestione familiare Ca’ Roma a sperimentare con vari metodi classici che sorprendono per bontà e personalità. Bassi dosaggi, poche concessioni al futile e bella acidità. Vale il viaggio. Anzi, se qualcuno si trova da quelle parti, mi faccia un fischio.
9)      Murgo Brut – Murgo
L’Etna che brinda. Nel territorio che ha fatto i più grandi progressi negli ultimi dieci anni non ci sono solo i grandi rossi da Nerello o i bianchi minerali da Carricante. C’è anche l’azzardo spumantistico di qualche temerario come Murgo che predilige il Mascalese per i suoi metodi classici quindi dei vulcanici Blanc de Noirs. Mineralità e sapidità ovviamente ma anche toni fruttati e profonda spalla acida. Un’esperienza da fare ad un prezzo ridicolo (11 euro, più o meno).
10)   Oltrepò Pavese Brut Nature – Monsupello
Ancora Oltrepò, questa volta in bianco con un produttore che ha saputo ben rinvigorire la qualità di questa DOC in ripresa proprio grazie a vignaioli seri come Monsupello. Il meglio lo dà nel suo Nature, di gusto pieno e gaudente, abbinabile come pochi altri spumanti ad una cena di pesce. Da bere e ribere.

E adesso a voi la ricerca. Senza dimenticare che il suggerimento di farsi consigliare dall’enotecario è sempre valido, non si finisce mai di scoprire qualcosa di buono. E se sarà qualcosa di diverso da questa lista, fatemi sapere cos’è e se vi è piaciuto. Io non mi offendo, anzi. Mi accontento solo della riconoscenza per aver scritto un post sugli spumanti senza mai aver menzionato la parola bollicine.