giovedì 26 maggio 2011

Due vini lontani che la pensano allo stesso modo


Ci sono vini talmente lontani che non sembrano avere nulla in comune, invece andando oltre l’impatto dell’evidenza, si va a sbattere contro delle realtà intellettualmente simili, che magari non si parleranno mai ma se un giorno si incontrassero avrebbero molte possibilità di andare d’accordo. In fondo tutti i vini buoni vanno d’accordo tra di loro, specialmente se per buono si intende un qualcosa di reale e non di artefatto. Buoni sono tanti vini al primo sorso, soprattutto per il palato inesperto, ma quanti di questi vini possono dirsi corrispondenti ad un’identità e non sottoposti a tecniche di uniformità del gusto? Non è detto che siano solo gli assaggiatori incalliti a poterlo capire. Un insegnamento che mi porto dietro è che un buon vino non si dovrebbe mai giudicare dal primo bicchiere, ma almeno dal secondo, meglio ancora se atteso il più possibile. La pazienza è una dote che spesso porta con se ottimi frutti. Con i buoni vini questi frutti possono diventare prelibati.

E’ su questa scia che vorrei parlarvi dei due vini apparentemente lontani che con tutte le loro differenze mi hanno portato verso un pensiero comune, che è proprio quello che riassume le righe scritte in precedenza: non solo non c’è bisogno di adeguarsi ai trend per conquistare i palati, al contrario è quasi sempre necessario allontanarsene e rimanere fedeli al proprio credo, al proprio territorio, alla propria natura. Il tempo è galantuomo e sono convinto che tra dieci anni si parlerà di questi vini anche dove ora si esaltano prodotti commerciali filosoficamente opposti. Intanto ve ne faccio una piccola descrizione adesso, cercando di raccontarvi le sensazioni che mi hanno lasciato. Parto volutamente dal rosso perché sfatare l’ordine canonico in questo caso viene spontaneo. Sembra quasi giusto, anche tecnicamente. Vediamo.

Morgon 2007 – Marcel Lapierre

Ci sono ancora molti che, bontà loro, credono che Beaujolais sia sinonimo di novello. Credo che è figlio di una sfrenata e certamente azzeccata operazione di marketing che ha spinto questo prodotto anomalo nel mercato internazionale facendo proseliti anche nel nostro paese (per chi non lo sapesse, il novello è vino fatto con le uve raccolte nella vendemmia appena terminata, il che implica un processo di lavorazione lungo normalmente almeno 6 mesi, condensato in pochi giorni dando vita ad una sorta di vino-frutto che vino vero e proprio nemmeno è). La realtà è che Beaujolais è il nome di una regione che geograficamente è parte integrante della Borgogna ma che dal punto di vista vinicolo ha una sua vita autonoma. Il vitigno rosso della zona è il Gamay e sono diverse le AOC in cui viene declinato con ottimi risultati, dalle regionali Beaujolais e Beaujolais-Villages a parecchi cru, tra cui i noti Fleury, Moulin-A-Vent e Morgon. E’ proprio quest’ultima la roccaforte di Marcel Lapierre, viticultore che non ha mai voluto sentir parlare di altro se non di vigna e di terroir. Naturale nel modo di vivere prima ancora che nei metodi di lavoro, Marcel ha dimostrato alla Francia ed al mondo intero che la biodinamica non è sempre sinonimo di vini estremi, difficili e di bizzarra concezione. Certo, questo Morgon non è un vino che si concede sdolcinatamente o che vuole essere ruffiano. Conquista col suo essere terroso e minerale ed allo stesso tempo fruttato e luminoso. Tra tratti speziati ed una leggera vinosità, l’olfatto fa da preludio all’entusiasmante sorso, pieno, garbato, fresco e di buona morbidezza, senza perdere un centimetro del suo raffinato tannino e mantenendo salda la sua fiera rusticità. Grandissimo allungo nel finale, migliora bicchiere dopo bicchiere e giorno dopo giorno, anche a bottiglia aperta, semmai avrete la forza di farlo avanzare. Un vino buono, nel senso di cui sopra, da abbinare a tutto, da bere anche da solo insieme a tocchi di parmigiano in un dopo-cena da non dimenticare.

Finger Lakes Dry Riesling 2008 – Ravines

Cos’aspettarsi da un bianco americano? La risposta non è più cosa scontata. O meglio, forse potrebbe esserlo se ci fossimo trovati di fronte ad uno Chardonnay californiano, magari di una delle tante mega-aziende della Napa Valley che nel tentativo di riprodurre uno Chablis locale hanno fatto la classica spremuta di vaniglia che purtroppo troviamo ormai da tempo anche in tanti bianchi italiani. Ma, con tutto il rispetto di qualche vigneron californiano che ce la mette tutta per fare vini fatti bene, qui siamo in un America molto diversa. Altro clima, altro paesaggio, altra cultura. Upstate New York, ovvero terra di mezzo tra i boschi al nord della Grande Mela ed i grandi corsi d’acqua del Canada Orientale, inverni rigidi ed estati fresche, al surf e alla sabbia si sostituiscono trattori e tanti, bellissimi laghi. Questa terra ha scoperto da un po’ di anni di poter produrre vino di buona qualità, e come in tutte le terre in cui sono le basse temperature a dominare, i protagonisti sono i vini bianchi, oppure i favolosi Ice Wine prodotti principalmente nel confinante Ontario. Ed ovviamente laddove si parla di bianchi del freddo, il traguardo, l’ambizione massima di chi fa vino è quella di produrre Riesling. Vitigno con cui c’è poco da manipolare, un errore porta al totale disastro perché non è facile trovare l’equilibrio tra delicatezza aromatica e complessità strutturale. L’uso del legno può distruggere tutto, una vendemmia leggermente ritardata può portare a residui zuccherini esagerati, un affinamento troppo breve rischia di far mettere sul mercato un prodotto a forte tendenza acida. Ravines ha accettato la sfida ed io vi parlo con piacere di questo 2008 per certi versi sorprendente, per austerità e schiettezza. Un naso che stenta a concedersi, vuole tempo, molto tempo ed una temperatura assolutamente non da bianco prima di regalare note erbacee,  di grano al sole, quasi bruciato, ed una splendida mineralità. Quando si assaggia la sua acidità è assolutamente in primo piano e fa da cornice ad un gusto che non concede assolutamente nulla ai sapori facili: è secco, sapido, di bella rotondità con eleganti ritorni minerali. Dà l’impressione di chiedere ancora molta pazienza per crescere e sicuramente da qui a dieci anni saprà impressionare e sorprendere. In questo momento sembra ideale per accompagnare crudi di pesce con in evidenza ostriche e cappesante.

Due vini, due tipologie, due mondi ma un solo modo di vedere le cose: assecondando la natura ed accompagnandone i frutti. Questi sono i vini che vorrei bere sempre, che mi raccontano storie e paesaggi. Il resto lo lasciamo a chi è distratto.

martedì 17 maggio 2011

Rosso e frizzante, oltre i luoghi comuni


Oggi voglio parlare di una tipologia di vini che ha pagato carissimo il prezzo della cattiva pubblicità, fino a diventare considerata come un prodotto accostabile più ad una bevanda gassata che ad un vino vero e proprio. Si, oggi voglio parlare dei rossi frizzanti, non solo perché viene l’estate, stagione in cui si ha più voglia di berli, ma anche perché questi vini sono un patrimonio culturale di alcune parti del nostro paese e, proprio come il Moscato d’Asti, non hanno praticamente concorrenza oltre confine. Un peccato allora lasciare in balia della grande distribuzione o di aziende interessate solo ai numeri questi prodotti che invece da tempo hanno smesso di essere solo dolciastri e simpatici. Ecco allora una piccola carrellata di assaggi recenti e meno recenti:

Gutturnio Rosso Frizzante – La Stoppa

La Stoppa è una cantina modello nei Colli Piacentini, pionieri del bio ed artefici della rinascita qualitativa di tante perle locali, dall’Ortrugo alla Malvasia passita che trova nel loro Ageno forse il top della tipologia. Ma la vera espressione di questo territorio rimane il Gutturnio, rosso in cui la Bonarda va a mitigare l’acidità del Barbera, dando vini fermi sia quotidiani che di una certa importanza ma soprattutto frizzanti dalla beva compulsiva. Naturale e con solforosa praticamente assente, la versione de La Stoppa ha naso terroso e di frutta matura, un tocco speziato che accompagna un sorso saporito, gradevole, pieno. Una volta nel bicchiere, si accompagna agevolmente con antipasti misti, paste al forno, roast-beef. Insuperabile.

Il Mio Lambrusco – Camillo Donati

E’ chiaro, quando si parla di rossi frizzanti viene in mente il Lambrusco, e non può essere altrimenti. L’Emilia è la terra dei salumi, del parmigiano, della pasta ripiena…con queste pietanze è imprescindibile il vino che sgrassa, che abbia buona struttura ma che non cancelli i ricordi delle tante golosità. Con Camillo Donati siamo nel parmense, e i suoi frizzanti rifermentano naturalmente in bottiglia con i propri lieviti. Tra le sue tante notevoli creature (su tutte Barbera e Malvasia) il “suo” Lambrusco è quello capace di far di nuovo innamorare di un vino che ha subito troppi soprusi. Cupo ma delicato, rustico ma elegante, complesso ma facile da bere. Spuma di bella finezza e corpo quasi da rosso fermo, non disdegna infatti temperature un po’ più alte di servizio. Da tortellini in brodo e bollito, oppure con un panino col culatello su un prato, all’aperto.

Brut Rosso Extra Cuvèe 2007 – Francesco Bellei

Fino a qualche tempo fa il Lambrusco Metodo Classico sembrava un’avventata bizzarria. Ora i produttori a farlo cominciano ad essere parecchi. Rimane il fatto che chi lo ha portato sulle tavole di osterie e ristoranti è stato Francesco Bellei, che nel cuore della strada del vino nel modenese propone da anni la sua extra-cuvèe. Cremoso, sapido, dritto e per niente accomodante al palato, dove si mostra nervoso e con una tannicità ben presente, questo Lambrusco chiama al secondo sorso per sottolineare tutte le sue evoluzioni nel bicchiere. Da abbinare ai cannelloni o ad una bella pasta al ragù.

Gran Rosso del Vicariato – Cantina Sociale di Quistello

Il lambrusco mantovano dovrebbe essere salvaguardato da qualche associazione, visto che oltre a subire le angherie della nomea, non ne ha nemmeno ricavato nulla dal punto di vista economico visto che è storicamente schiacciato dai più famosi emiliani. La Cantina Sociale di Quistello, comune che se esistesse una classificazione del Lambrusco meriterebbe il titolo di Grand Cru, si dissocia dalla politica grandi numeri-poca qualità tipica delle cooperative vinicole, e si concentra su prodotti territoriali lavorando in biodinamica e mantendendo prezzi proletari. Il Gran Rosso, 100% lambrusco mantovano, è vino vero in tutti i sensi: gustoso, appagante, richiama fragole di bosco e spezie dolci, di ottimo equilibro. Imbattibile in versatilità, dall’aperitivo ai formaggi molli. Cercatelo.

Lambrusco In Correggio Rosè – Lini 910

Altro nome storico, capace di riportare alla ribalta questo vitigno con una gestione che ha saputo mixare l’attenzione al territorio alla capacità di fare marketing intelligente e mirato. Nella loro ampia gamma figurano ottimi metodi classici e tre lambruschi tipici, tra cui spicca questo rosè, vero volto dell’azienda in quanto sa coniugare tipicità e piacevolezza senza mai risultare né artefatto né stucchevole. Al contrario, si apprezza grande equilibrio e lungo finale, dal sapore di frutta macerata e con bella acidità. Estivo, da provare con antipasti di pesce, anche col modaiolo sushi.

Lambrusco Grasparossa Fontana dei Boschi – Vittorio Graziano

Al contrario di Lini, Vittorio Graziano ha sempre mantenuto un basso profilo. Ma se non fosse per lui probabilmente non si sarebbe mai aperto il mondo del Lambrusco Naturale, con lieviti indigeni, rifermentazione in bottiglia e limitazione massima della solforosa. Lui utilizza questi metodi dal 1982 ed ancora oggi il suo Grasparossa di Castelvetro incarna le sembianze del vero Lambrusco, grazie al suo saper fondere tannicità e sensazioni vellutate, sapidità ed eleganza. Paradigmatico e come un vero Lambrusco dovrebbe essere, incredibilmente versatile a tavola.

Penisola Sorrentina Lettere 2010 – Grotta del Sole

Non è solo in Emilia e nella bassa Lombarda che c’è l’abitudine di bere rossi frizzanti: nei dintorni della magica Sorrento da sempre Aglianico e Piedirosso si traducono in divertenti bollicine estive. Come questo Lettere di Grotta del Sole, azienda dai numeri cospicui capace di non piegarsi alle leggi del becero mercato. Godiamoci allora la nota amabile di questo vino al quale non mancano però intensità e freschezza, il tutto coronato da belle note di frutta al naso. La definizione di vino beverino è scritta in questo Lettere, da accompagnare alla pizza come vuole la tradizione.




domenica 1 maggio 2011

Madiran Prestige 2005 - Montus


Alcuni personaggi del mondo del vino diventano tali per motivi più folkloristici che altro. Cosa che in realtà avviene spesso anche in altri campi. Nell’era della comunicazione ad infinite sfaccettature conviene più essere Mourinho che Zeman. Ma tra i tanti eno-mou in giro per il mondo, c’è ancora spazio per chi diventa un personaggio per ragioni legate alla filosofia di lavoro ed ai suoi risultati nella bottiglia. Uno di questi è senza dubbio Alain Brumont, personaggio di cui in pochi saprebbero delineare un identikit ma i cui vini sono invece sulla bocca di tanti appassionati ed addetti ai lavori. Ed al di là della qualità degli stessi, il solo fatto di far entrare nel gotha dei grandi un appelation misconosciuta come Madiran è di per se un traguardo da sottolineare col miglior UniPosca.

Siamo in quella regione che i francesi chiamano semplicemente Sud Ovest, senza lasciare dubbi sulla sua posizione nell’esagono transalpino. La nobiltà di Bordeaux è poco più a Nord, lo spirito mediterraneo della Languedoc-Roussillon poco più ad est, insomma ci sarebbero tutti gli ingredienti per tracciare la mappa della terra di nessuno. Ma è proprio in queste terre che i personaggi del vino – quelli veri – trovano la loro dimensione. E’ in queste terre che entra in gioco Alain Brumont. E’ stato lui, rilevando delle vigne nel 1980, a dare nuova importanza al Tannat, vitigno semi-dimenticato che nei suoi rossi riesce ad esprimere l’eleganza e la potenza, mentre prima veniva considerato troppo astringente ed amaro, buono solo per diluire altri vitigni. Nella sua produzione che ormai raggiunge quasi le 500mila bottiglie annue, ci sono due gamme ben distinte. Innanzitutto, quella a nome Bouscassè che si concentra su prodotti rustici e molto tipici, tra cui i bianchi a denonimazione Pacherenc du Vic Bilh da vitigno Petit Courbu, anch’essi riportati a nuova vita,  e rossi a prezzi piuttosto bassi. Poi c’è la linea superiore targata Montus, che si concentra sui rossi di prestigio, ottenuti da selezioni e da vecchie vigne. Tutti i terreni sono curati con la “lutte raisonnèe”, cioè un metodo che prevede l’uso della chimica solo se strettamente necessario.

Qualche giorno fa a pranzo ho stappato il 2005 del Montus Prestige, l’intermedio della gamma, quello che molti considerano persino migliore dell’etichetta top La Tyre, che ha un prezzo importante (siamo intorno agli 80 euro in enoteca in ITA). Il Prestige invece sta poco sotto i 20 ed è composto totalmente da Tannat. Lo conservavo da qualche anno, mi sembrava il momento giusto per aprirlo. Purtroppo sono stato frettoloso.

Sapevo che la 2005 era stata un’annata particolarmente favorevole anche in questa zona della Francia, non solo in Borgogna ed a Bordeaux dove i grandi rossi daranno il loro meglio non prima del 2020. Bè, questo Montus non sarà di tale longevità ma al momento dell’apertura era ancora piuttosto squilibrato verso le note derivate dal passaggio in legno, dove il vino, oltre ad effettuarvi entrambi le fermentazioni, sosta per circa 15 mesi, il tutto in barrique per metà nuove. Al naso quindi si percepiva soprattutto vaniglia e spezie dolci facendo virare il vino verso note inevitabilmente ammiccanti. Il tempo nel bicchiere, spesso necessario in questo tipo di vini, non faceva cambiare di molto la situazione. Qualche nota scura di frutta rossa e di pepe faceva capolino ma era sempre la parte dolciastra ad avere il sopravvento. Al gusto, pur seguendo la scia dell’olfatto, era ammirevole l’equilibrio: il vino risultava essere morbido ma non pesante o stucchevole, a dimostrazione di una bella qualità di materia prima, proveniente per altro da vigne di 25 anni. Una buona acidità di base, un nota alcolica ben amalgamata, un sapore piacevolissimo ed una gran bella pastosità rendono questo vino importante ma facile da bere. Di sicuro siamo nel campo dei vini dallo stile moderno, che farebbero contenti coloro che entrano in enoteca e con l’aria da esperti chiedono “un rosso barriccato”. Ma non è un vino che stanca, anzi. La bottiglia è finita in un attimo, accompagnando l’arrosto con le patate. Sicuramente questa sua morbidezza si smusserà tra un po’ di tempo, credo che troverà il suo equilibrio tra 5 anni. Ciò però non significa che ora non sia buono. Non è il vino della mia vita ma se me ne offrite un bicchiere me lo bevo volentieri. E se me ne capita un’altra bottiglia la faccio riposare per un po’. Poi magari ne riparliamo.