Tanti i motivi di curiosità per questo "vin nature" prodotto nel Sud Ovest della Francia. Innanzitutto, il vitigno: si chiama Auboriou, praticamente un unicum, riscoperto dai piccoli vignaioli della zona. Poi l'azienda, uno "chateau" sui generis che è già una sorta di icona nell'ambito della viticoltura naturale e non solo. Infine, il concetto dietro questo vino, facente parte di una linea "senza fronzoli" contraddistinta da etichette disegnate e che comprende anche "Le Blanc Qui Tente" e "Le Rosè Qui Touche".
Tutto farebbe pensare ad un rosso semplice e beverino, da merenda. Ma già all'apertura si rimane spiazzati. Il vino è di un rubino scuro, pieno, ricorda quasi un Malbec. L'olfatto non raggiunge livelli spaziali di complessità ma è molto, molto intenso. Arriva al naso parecchia frutta fresca, rossa e di bosco, nitido il sentore di fragoline. Poi si alternano tratti solari e scie cupe, dalla macchia mediterranea fino a sfumature selvatiche. Sorprende la materia in bocca, il vino infatti è grasso ed avvolgente, di bella acidità e con un filo molto sottile di carbonica residua nel retrogusto che ne accentua la godibilità. Si apre del tutto con molta calma, anche al terzo o quarto bicchiere, quindi aprirlo con anticipo può solo fargli del bene.
Carattere inconfondibile ed assoluta versatilità in abbinamento, per quanto sembra chiamare una bella grigliata. Consigliabile a chi cerca un rosso non pesante ma non vuole rinunciare alla sostanza. Intorno agli 8 euro in Francia, circa 15 da noi.
domenica 25 novembre 2012
Rosso dei Colli Trevigiani - Costadilà
Il mio primo impatto con Costadilà, avvenuto qualche anno fa in una fiera di vini naturali, non fu esaltante. Il loro banco era appariscente e pieno di orpelli colorati, gli addetti erano vestiti in modo bizzarro, le etichette delle bottiglie ricordavano opere di arte contemporanea. Insomma, tutto mi sembrava architettato per attirare attenzione, che non sarebbe stato un peccato mortale se solo il loro unico vino all'epoca presentato, il Prosecco, non mi convinse per niente: lo trovai statico, piatto, dal sapore mal definito.
Sono passati quasi tre anni da quell'occasione, ed i vini di Costadilà li ho riassaggiati spesso e dico con gioia che il mio pensiero è completamente cambiato. I loro Prosecchi (nel frattempo le etichette dedicate a questo vitigno sono diventate tre, differenziate dall'altitudine delle vigne) sono tra i migliori esempi di vini frizzanti rifermentati in bottiglia e non solo hanno avvicinato i maestri del genere ma rischiano concretamente di averli anche superati. Pochi giorni fa ho avuto modo di provare per la prima volta il loro Rosso dei Colli Trevigiani, ottenuto da Marzemino e Merlot. Anche questo vino rifermenta in bottiglia ma a dispetto dell'indicazione "frizzante" in etichetta, ha in realtà una vivacità molto contenuta e trovo perfetta la definizione data dalla casa come "vino irrequieto". Rimane certamente un rosso da bere fresco (non freddo). E' senza spuma, di un bel rubino scuro, con sensazioni di frutto e di vigna. Piacevolezza e carattere al palato, dove la discreta acidità si fonde alla schiettezza vinosa ed alla morbidezza data presumibilmente dal Merlot.
E' un rosso da pizza bianca e salumi, da zuppe di farro, da bollito. Un inno alla convivialità, senza chimica e senza solfiti. Tra gli otto ed i dieci euro in enoteca, autentico "best buy".
sabato 24 novembre 2012
Crèmant du Jura Le Combe Rotalier - Jean Francois Ganevat
Uno dei miei tanti deboli nel
mondo del vino sono i crèmant francesi. Perché nel paese dello Champagne
produrre spumanti in altre regioni è sempre visto come un ripiego, un qualcosa
destinato al consumo locale in alternativa ai vini fermi. E certe passioni mi
affascinano, mi attira la tigna dei vignaioli che mettono anima e corpo per la
produzione di bottiglie che hanno poco mercato e che vengono vendute a prezzi
irrisori in confronto ai grandi Champagne.
Lo Jura poi è una regione
vinicola già di nicchia, dove i bianchi sono ostici, i rossi fatti con vitigni
sconosciuti ai più (trousseau, poulsard, belle cose da scoprire) ed il top si
raggiunge con le ossidazioni estreme dei fantastici “vin de paille”. Ecco perché
un Crèmant du Jura avrà sempre le mie simpatie e raramente sarà assente nella
mia cantinetta. Quando poi è fatto in maniera seria e genuina come nel caso del
Combe Rotalier di Jean Francois Ganevat, la soddisfazione è doppia. Lieviti
indigeni, niente o poca solforosa, dosaggio quasi zero, questo crèmant punta
decisamente sulla facilità di beva senza trascurare la sua identità. Fine ed
elegante nel suo aspetto corredato di silenziosa effervescenza, ha un olfatto
che oscilla tra frutta secca e composta di mele con un nonsochè di terroso che
fa da sfondo ad una personalità tutta sua fatta di lime e fiori di montagna.
Seppur esile, mostra al gusta una bella intensità con ritorno coerente delle
note olfattive, su tutte il lime. Va giù come l’acqua e la descrizione “vin
joyeux” gli calza a pennello visto anche il suo piacevolissimo finale.
Dall’aperitivo ai pranzi di
pesce e per tutti i momenti di festa. Meno di 15 euro, un affare per un metodo
classico, ma è il prezzo francese. In Italia non è ancora distribuito.
Sancerre Les Monts Damnès 2004 - Pascal Cotat
Ogni volta che apro un vino
con qualche annetto sulle spalle, ho il timore di trovare tappo disintegrato,
ossidazione, disastri organolettici. La mia è una cantinetta da camera la cui
amorosa attenzione a lei dedicata non rende comunque ideale per lunghi
affinamenti. Per questo a volta anticipo l’apertura di qualche anno: meglio bere
il vino un po’ prima del suo ipotetico zenit invece che buttarlo nel lavandino perché
andato.
La premessa era dovuta perché questo
Monts Damnès 2004 di Pascal Cotat poteva crescere ancora. Ma vi dico una cosa:
se ne avete una bottiglia in casa, apritela e godetevela. Ed il discorso vale
anche per chi si dichiara poco amante del Sauvignon Blanc. In questo vino, non
filtrato e non trattato, non troverete le esagerazioni olfattive di questo
vitigno spesso frequenti in interpretazioni provenienti da territori poveri di
materia o di storia. Qui siamo su un registro di infinita eleganza, dettata da
note balsamiche e spunti minerali, dove il varietale si esprime con sentori
erbacei delicati e di frutta bianca, fondendosi ad una lieve sensazione
affumicata. Morbido ed avvolgente al gusto, con un’impressionante e rara capacità
di assorbire la freschezza nel suo carattere profondamente tipico di questa
terra chiamata Sancerre ed in particolare di questo cru noto come Monts Damnès.
Mai stancante nonostante la sua complessità, importante e pieno a fronte di un’alcolicità
contenuta (12.5%).
Una delle più grandi
espressioni di Sauvignon, uno dei migliori bianchi da bere su un pranzo
impegnativo. Tra i 35 ed i 40 euro in Italia, intorno ai 25 in Francia. Li vale
tutti.
sabato 31 marzo 2012
Resoconti dal Veneto 2012
Le fiere venete del vino sono
terminate ed io sono di ritorno dalla consueta full immersion tra stand e vignaioli, stanco ma soddisfatto per
avere definito un quadro più o meno generale del panorama enologico che più mi
interessa, cioè quello legato all’espressione reale del territorio e della
tradizione. Quest’anno gli appuntamenti canonici con i vini cosiddetti naturali
si sono arricchiti di un padiglione dedicato nell’ambito del Vinitaly rendendo
così obbliagtoria una tappa nella mega-kermesse veronese alla quale venivano
preferite già da qualche anno le manifestazioni di Cerea (Viniveri) e Villa
Favorita (VinNatur). Inutile sottolineare ancora quest’ennesima divisione di
cui tanto si è discusso ma non fa male ricordare che i tre diversi luoghi degli
eventi, non necessariamente ben collegati fra di loro, hanno costretto molti
appassionati a tour de force con conseguente esborso economico. Fortunatamente
ho notato l’esistenza di parecchia solidarietà e collaborazione tra il pubblico
assetato di vino naturale, con passaggi dati anche a sconosciuti,
organizzazione di viaggi all’impronta, cessione di ingressi extra appartenenti
ai forfait dell’ultim’ora. Ma buona volontà a parte, sarebbe molto meno
problematico organizzare il tutto a distanze più concentrate, se proprio non si
riesce a mettersi d’accordo per stare tutti insieme.
Questa volta non parlerò di
quali vini mi abbiano colpito, o meglio prometto di farlo man mano, analizzando
meglio i prodotti che per me sono entusiasmanti. Mi limiterò dicendo che il
livello dei vini veramente naturali è piuttosto alto e noto con piacere che
molti vignaioli continuano a crescere di annata in annata, senza pensare di
essere arrivati. Ormai si può tranquillamente dire che i vini naturali sono “vini”
a tutti gli effetti ed i riconoscimenti olfattivi e gustativi vanno ben oltre
le “puzzette” o l’eccesso di acidità volatile. Sono tanti i vini che dimostrano
come tutti i preconcetti ed i miti su un certo tipo di viticoltura siano ormai
parte di un linguaggio critico prevenuto e/o poco informato. A Cerea, Villa
Favorita ed al Vivit, ho bevuto vini naturali esili e grassi, di pronta beva e
da invecchiamento, profumatissimi e chiusi, facili ed estremi, da tutto pasto e
da conversazione. Ne ho bevuti anche di insignificanti e di inespressivi, di
piacioni e di esageratament forzati. Ma vi assicuro che una volta entrati in
questo mondo, che per me è il mondo che più appartiene al vino, ci rende conto
di quanto la realtà convenzionale sia banale e piatta. I lieviti selezionati, l’abbondanza
di solforosa, determinate pratiche di vigna e di cantina rendono i vini “dell’industria”
(oltre che potenzialmente nocivi) una copia l’un dell’altro con modifiche secondo
il target che all’etichetta si pone. Le eccezioni ci sono. Ma sono poche. Perché
il vino è un alimento che si gusta prim’ancora di essere degustato, ed il gusto
non mente. Bisogna solo allenarlo un po’.
Detto delle tante cose buone e
delle emozioni vissute assaggiando e scambiando opinioni, riscontrando la
disponibilità, la simpatia e l’onestà dei tanti produttori presenti, ecco
invece una lista di ciò che mi ha reso perplesso:
Le cinque cose che non mi sono
piaciute delle fiere venete sul vino
1) La
spocchia di certi viticultori i quali, barricati dietro le loro certezze
assolute, guardano il resto del mondo dall’alto in basso, ti danno confidenza
solo se sei loro amico (o forse loro cliente), reputano i vini degli altri
veleno e nel 99% dei casi fanno pagare i loro uno sproposito. Questa singolare
forma di snobbismo non è altro che la trasportazione nel mondo del vino del
radical-chiccismo più infido, perché messo in atto da chi si maschera da pseudo-contadino anarchico e
ribelle e cattura magari l’attenzione dell’appassionato che si fida delle
apparenze. Devo dire che i casi del genere purtroppo stanno aumentando e non
vorrei che questa via sia percorsa da altri vignaioli che credendosi arrivati
si permettono di far superare la loro passione dalla loro presunzione.
2) La
stasi della produzione laziale nell’ambito della naturalità reale. Il Lazio è
una delle regioni in cui ultimamente fioccano le certificazioni biologiche ma
quasi nessuna di queste rispecchia poi una produzione veramente naturale. La
differenza tra biologico industriale e biologico artigianale è un tema troppo
lungo da poter toccare nell’ambito di questo post ma certamente nella nostra
regione l’artigianato in ambito vinicolo deve affrontare ancora molti, troppi
ostacoli. A Cerea erano presenti quattro produttori laziali (uno dei quali – le
Suore Trappiste di Vitorchiano – è in realta un progetto curato e seguito da
Paolo Bea dall’Umbria), a Vivit uno e a Villa Favorita zero spaccato. In
compenso nel padiglione del Lazio del Vinitaly (sempre più desolante) c’era il
consorzio delle aziende vinicole bio, i cui vini sono però indistinguibili da
quelli di agricoltura convenzionale. Un peccato perché il nostro terroir
permetterebbe una viticoltura naturale di ottimo livello. Invece lieviti
selezionati, chiarifiche e concentrazioni la fanno ancora da padroni.
3) La
confusione nei criteri di selezione delle aziende aderenti ai vari gruppi. Se
vado ad una fiera del vino naturale vorrei trovare vini che, con le loro
differenti personalità, rispecchino una viticoltura e delle pratiche di cantina
ben identificate da dei protocolli, siano essi legali od etici. Invece noto che
qualche produttore che sale sul carrozzone dei naturali viene accettato ed
inserito nell’ambito delle manifestazioni, pur non rispettando determinati
criteri fondamentali per farne parte. Detto per inciso, per me naturale non
significa solo avere una certificazione, quello è solo un primo eventuale
passo. Sappiamo tutti che l’essere etichettati bio in Italia non è sufficiente a
garantire un vino veramente sano (oltre che ovviamente, buono). Separarsi dai produttori convenzionali
dovrebbe essere un modo per far capire al consumatore la vera differenza tra il
gusto del vino “vero” e quello “industriale”. Una maggiore attenzione nella
selezione non può che aiutare questi gruppi, i cui scopi sono nobili e che comunque
per fortuna sono ancora in gran parte raggiunti.
4) La
difficoltà per raggiungere Villa Favorita per chi non è in macchina. Su questo
punto torno perché mi sembra un tema largamente sottovalutato dai dibattiti e
dalle discussioni sugli eventi. Villa Favorita è un luogo fantastico, con un
panorama mozzafiato ed un’atmosfera d’altri tempi, molto adatta tra l’altro ad
entrare in contatto con i vignaioli. Però è sperduto tra i vigneti del
Gambellara, è a quasi 10km dalla stazione più vicina, Montebello Vicentino,
servita poco e male dai servizi regionali. Di pomeriggio la navetta per tornare
dalla villa alla stazione c’è ma chi arriva la mattina col treno farà meglio ad
affrontare la scarpinata perché la prima navetta arriva (forse) intorno a
mezzogiorno. Gli organizzatori dovrebbero sapere che l’evento attira molti
visitatori che si spostano da altre parti d’Italia ed il treno è il mezzo più
gettonato, specialmente per chi viene da lontano. Inoltre, visto che la
manifestazione si svolge in semi-coincidenza col Vinitaly, molti alloggiano a
Verona o dintorni e con i mezzi pubblici i due luoghi sono collegati piuttosto
male. Insomma, se proprio si vuole mantenere la location suggestiva, si faccia
in modo di dare una mano a chi non guida o non ha un mezzo proprio a
disposizione. Non tutti riescono ad ottenere passaggi o ad avere la forza
fisica di camminare a lungo sotto il sole.
5) La
scelta del gruppo Vivit di andare al Vinitaly. Lo premetto, non sono uno di
quelli che si è scagliato preventivamente contro questa decisione, anche se
creare l’ulteriore divisione mi sembrava alquanto inutile. Capisco le esigenze
di tutti ed in fondo questi eventi servono ai piccoli produttori molto più che
ai grandi, quindi avere a disposizione un pubblico più vasto, quello del
Vinitaly, è economicamente comprensibile. Quello che non mi è piaciuto è il
modo in cui è stato gestito il tutto all’interno del circo veronese: una sala
angusta, con i produttori assiepati l’un l’altro, spazi strettissimi per gli
avventori, attese all’ingresso per avere un (pessimo) bicchiere pulito, il
dover sgomitare con i gruppetti di avvinazzati che sono purtroppo molto
frequenti tra i padiglioni della Fiera di Verona in questo periodo. Tutto ciò
ovviamente va a discapito della comunicazione col produttore e rende molto più
asettico il contatto con i suoi vini, spesso gustati in fretta e furia in mezzo
a nugoli di braccia. Aggiungo poi che chi, come il sottoscritto, avesse deciso
di andare al Vinitaly quasi esclusivamente per il Vivit, era comunque costretto
a pagare le 50 euro dell’ingresso giornaliero. Ovviamente tutto questo non è
colpa dei produttori ma quando si è deciso di andare lì, certe cose potevano
essere facilmente intuibili. Speriamo in un miglioramento nell’anno venturo.
venerdì 13 gennaio 2012
I migliori vini del 2011
Il 2011 è stato un anno
difficile, inutile negarlo. Al di là di considerazioni personali, l’andamento
sociale, economico e politico è stato quelle che tutti conosciamo, che tutti
abbiamo sofferto nel quotidiano, con sacrifici, rinunce, dolori. Per questo i
pochi momenti di svago sono stati ancora più importanti del solito, perché
concentrarsi in pensieri di serenità e di passione è fondamentale quando il
contorno è buio. I miei momenti di svago coincidono spesso e volentieri con un
bicchiere di vino. Una bottiglia stappata, bevuta, goduta, discussa tra amici e
commensali è ormai un passaggio che nella mia vita corrisponde a serenità. E
non è poco, chi condivide questa passione lo sa ma è facilmente trasferibile a
qualsiasi altro tipo di attività nella quale si mettono anima e corpo.
I vini che ho bevuto lo scorso
anno, almeno quelli che mi hanno particolarmente colpito, hanno un unico
denominatore comune: la genuinità. Una volta cercavo vini costruiti, fatti per
stupire, per essere i protagonisti a tavola. Con tutto il rispetto per quella
tipologia, spesso corrispondente a rossi opulenti e pesanti, il mio gusto ha
decisamente virato verso altri lidi. Il che non significa che i vini che
prediligo non siano importanti. Anzi, la curiosità di riassaggiare tra dieci o
quindici anni alcuni bianchi freschi e profumati ma allo stesso tempo complessi
e personali c’è eccome, con la non tanto latente convinzione che il tempo possa
regalare ulteriori emozioni. D’altronde uno dei vini con cui ho chiuso l’anno è
stato il Cerasuolo d’Abruzzo di Valentini. Rosato tra i più importanti al mondo
ma pur sempre rosato, quindi senza pretese di muscolosità. Eppure, con tutta la
sua freschezza e la sua egregia bevibilità, la versione che ho aperto era
datata 1978. 34 vendemmie fa. Ed era in gran forma. Alla faccia di chi pensa
che solo i soliti supervini possano sfidare gli anni. Ecco quindi la mia lista,
personale e a tratti legata a ricordi, dei migliori vini del mio 2011. Ne
esistono tanti ed altri ancora superiori a questi. E ce ne sono altrettanti che
purtroppo mi dimentico. Ma queste sono le mie sensazioni. E non c’è punteggio
che potrà classificarle.
(ad ogni vino è associata una
canzone che in qualche modo consiglio di ascoltare durante la bevuta. Non so se
tutto questo abbia un senso, però abbinare vino e musica è uno dei piaceri
della vita. Provate se volete)
SOUS LE CAILLOUX DES GRILLONS
2008 – CLOS DU GRAVILLAS
Frutta, mediterraneo e schizzi
di nero in questo blend tipico del SudOvest francese, segnato dal Carignan.
Tramonti giovanili e l’odore dei sassi bagnati ai bordi del fiume. “Rebel
Rebel” di David Bowie.
GOLFO DEI POETI ALBAROLA 2009
– SANTA CATERINA
Albarola, vitigno che si
inerpica sulla montagna dal mar Ligure, ci racconta lo splendido panorama che
vede, tra erbe aromatiche, salsedine e terra. La macerazione la rende ancor più
viva. “Red China Blues” di Miles Davis.
CHAMPAGNE BRUT NATURE –
DEMARDE FRISON
Uno Champagne dell’Aube, terra
fuori dai nobili Cru, capace di stupire ed inebriare. Dritto, inappuntabile,
minerale, gustoso. Lontano dalle paillette, vicino alla terra. Come dovrebbe
essere. “In The Silence Of The Morning” degli Agitation Free.
GRAN ROSSO DEL VICARIATO –
CANTINA SOCIALE DI QUISTELLO
I rossi frizzanti hanno
accompagnato i miei momenti più spensierati e li amo così tanto che credo lo
continueranno a fare. Quelli veri, come il Lambrusco Maestri della miracolosa
Cantina di Quistello permettono di sfatare ogni luogo comune sulla tipologia.
Da non svilire. “Sweet Jane” dei Velvet Underground.
BOURGOGNE CHARDONNAY 2007 –
HORONCE DE BELER
Il coraggio di chi lascia la
Ville Lumière e le sue certezze per l’incognita della vigna borgognona. Ecco
cosa si trova in questo affascinante e tutt’altro che semplice Bourgogne, un
vino che cresce e che cambia, che ammalia e che conquista, come la passione dei
pazzi. “People Music” di Herbie Hancock.
ALBARINO 2009 – MARTIN CODAX
L’albarino è il profumo
dell’erba bagnata dalla pioggia, è una passeggiata di sera lungo il porto, è
una chiacchierata dopo il lavoro. L’albarino è la Galizia, il suo spirito, la
sua bellezza. Bisogna capirlo, ma si amerà anche mentre ci si fanno domande.
“Crying” dei TV On The Radio.
SEMPREMAI 2008 – PODERE SANTA
FELICITA’
Vin de garage se ce n’è uno,
da un vitigno sconosciuto al mondo (Arbrostine, dice niente?) e da un territorio
poco battuto come il Casentino, non ha eguali per territorialità e
piacevolezza. Spezie, acidità, montagne, nebbia. Secondo, terzo, quarto
bicchiere. “Like Cuckatoos” dei Cure.
TRENTO DOC BRUT – REVI’
Lo spumante in Trentino è
storia e non importa se sono altre le zone alla moda, il top in Italia è sotto
le Dolomiti, uno degli interpreti si chiama Revì, portatore di gusto non
scontato, di perlage elegante, di facilità di beva e di lungo finale. A me
basta. Anzi, ne voglio ancora. “Disillusioned Man” dei Demon Fuzz.
MACON-CRUZILLES 2008 – DOMAINE
VIGNES DU MAYNES
La terra in fondo è la stessa,
e si sente. Solo che la Borgogna che conta sta a nord e di certo non utilizza
Gamay per i suoi fantastici rossi. In questo bicchiere la terra è un po’ più assolata
e al sottobosco infinito del Pinot Nero, si sostituisce la scorbuticità del
Gamay. Genio e sregolatezza. Sorprendente. “Fool On The Hill” dei Beatles.
SAHARAY 2009 – PORTA DEL VENTO
Un viaggio sotto il sole della
Sicilia più brulla, quella di Porta del Vento, interprete di vini magistrali ed
incredibilmente territoriali, dal Nero D’Avola al Perricone, ai rosati ma su
tutti questo fantastico Catarratto macerato che sa di vita vissuta lentamente
con schizzi di emozioni frenetiche. “Drove Through Ghosts To Get Here” dei
65Daysofstatic.
CHAMPAGNE BRUT BLANC DE BLANCS
– LAHERTE FRERES
Se l’eleganza incontra
l’imprevidibilità e la tradizione va a braccetto con la creatività, si brinda
con Laherte Freres. Tutto ciò che si chiede ad uno Champagne da Chardonnay,
senza fronzoli e con tanta sostanza, per accompagnare tutti i pasti che passano
per i fornelli. “Lovers On Main Street” dei Japan.
SAUMUR CHAMPIGNY L’INSOLITE
2009 – DOMAINE DES ROCHES NEUVES
Il Cabernet Franc è il vitigno
del mio cuore e anche se lo Chinon Les Clos Guillot di Bernard Baudry rimane
per me inarrivabile, questo Insolite mi ha pian piano conquistato per il modo
in cui si estranea dal mondo e porta il suo erbaceo in spazi bui e sconosciuti.
“Eve Of Eternity” degli Eiliff.
SALICE SALENTINO IL PIONIERE
2009 – NATALINO DEL PRETE
Chi l’ha detto che la
rusticità non può essere di classe?mettete il naso nel selvaggio Salice di
Natalino, poi aspettate un po’ e sentite cosa succede. E soprattutto,
assaggiatelo: succoso, saporito, pieno. E mai stanco. Lo specchio di chi lo fa.
“The Other Side Of Town” di Curtis Mayfield.
NOT 2009 – PARASCHOS
Pensate al Pinot Grigio e
rivoltate le vostre idee, forse vi avvicinerete alla verità. “Not”, la
negazione per eccellenza, o semplicemente la fine di Pinot, interpretato
magistralmente e come la storia vuole, ad ottenere una sorta di rosè, nella
zona italiana dove rende al meglio, il Collio. “I Wanna Be Your Dog” degli
Stooges.
CREMANT D’ALSACE – JULIAN MEYER
L’Alsazia entra nel cuore
prima coi suoi panorami, poi con la sua gente e poi con i suoi incredibili
vini. Molti dei bianchi più buoni vengono da qua, per eleganza, complessità e
fascino. Julian Meyer ne fa di eccezionali. Ma l’etichetta che scelgo è il suo
Cremant. Spumante da camino, etereo, gustoso, infinito. “It Could Be Sweet” dei
Portishead.
PIETRO BIANCO 2009 – DANIELE
PORTINARI
Meglio il silenzio del
frastuono, meglio le cose piccole che le esagerazioni. Scontato ma così
difficile da applicare. Ci riesce Daniele Portinari col suo silenzioso e
piccolo bianco, così genuino e personale che riconcilia con l’idea spesso
abusata di artigianato. “The Daily Planet” dei Love.
VOUVRAY LA DILETTANTE 2009 –
BRUTON
Benvenuti a Vouvray dove tutto
è diverso. Qui se ne fregano del gusto globale, dell’industria, delle belle
etichette, dello shock a tutti i gusti. Qui si vinifica Chenin Blanc, vitigno
tosto se ce n’è uno, acido, dritto, delicato. Provare La Dilettante di Bruton
per credere. Magia allo stato puro. “Area” dei De La Soul.
BARBARESCO RABAJA’ RISRVA 2004
– CORTESE
Un vino rosso importante ben
fatto, ormai è difficile trovarne. Occorre andare nelle Langhe, lì il compito è
facilitato e scegliere non è facile. Tra tanti promettenti baroli, mi ha rapito
il Barbaresco Rabajà Riserva di Cortese. Frutta ed orizzonti cupi, acidità,
sapore, lunghezza infinita. “Electric Funeral” dei Black Sabbath.
CESANESE DI OLEVANO ROMANO
SILENE 2009 – DAMIANO CIOLLI
Lo ammetto, questo vino non
dovrebbe esserci perché lo conoscevo già bene. Ma ogni anno mi colpisce perché
interpreta l’annata ed esalta quel gran vitigno che è il cesanese. E rimane una
delle poche isolate eccellenze di una viticoltura laziale ancora schiava dei
soliti nomi. “The Ballad Of Dorothy Parker” di Prince.
venerdì 6 gennaio 2012
Nossiter, anch'io dico la mia
Non ce la faccio, non posso
non dire anch’io la mia sull’articolo di Jonathan Nossiter pubblicato su GQ. Ma
cominciamo dall’inizio perché troppe cose sono state date per scontate.
Innanzitutto, la premessa obbligatoria: Jonathan Nossiter è un regista
americano che gli appassionati di vino conoscono quanto (forse meglio) degli
appassionati di cinema. La ragione è un suo film-documentario di grande
successo chiamato “Mondovino” seguito a qualche anno di distanza dal libro “Le
Vie del Vino”, due opere con un chiaro argomento affrontato con un approccio
che qualcuno ha definito “No Global”, qualcun altro “sovversivo”, altri
addirittura lo hanno considerato politicizzato ed anti-establishment. In realtà
sia nel film che nel libro Nossiter sottolineava le differenze tra l’azienda
enologica dominante nel mondo, quella fondata su cantine da milioni di
bottiglie e vini allineati al gusto imposto dal mercato, e tra i pochi
vignaioli che cercano di lavorare per fare vini che rispecchino il territorio
da cui provengono, cercando di stare lontano da consulenti enologici, mode
commerciali e quant’altro possa costituire una manipolazione della naturalità
di un prodotto della terra come il vino. Senza dubbio Nossiter mostra un
interesse ed una simpatia maggiore per questi ultimi, un sentimento che
probabilmente ogni vero appassionato di vino ed ogni persona dotata di una
minima eticità non può che condividere.
Nossiter, giramondo da sempre,
figlio di giornalista e marito di un’artista brasiliana, vive a Roma da un po’,
ed in questi giorni un suo articolo sulla rivista GQ ha fatto scoppiare la
bomba nel mondo della ristorazione romana e nell’industria vinicola italiana
tutta. Articolo nel quale il regista è ben più diretto che nelle opere
precedentemente citate nell’accusare il mondo dei vini industriali e la triste situazione delle liste dei vini
dei ristoranti romani, banali, piene di grandi nomi e con ricarichi spesso
esagerati. Vengono fatti anche i nomi, sia dei ristoranti (nello specifico
finiscono sotto accusa “Felice a Testaccio”, “Il Convivio” e “Il Sanlorenzo” ma
anche le parole virgolettate del sommelier de “La Pergola” non fanno fare bella
figura al ristorante pluristellato di Heinz Beck) e le cantine, tra cui le
ovvie Antinori, Zonin, Frescobaldi ma anche Gaja e soprattutto Casale del
Giglio, sulla quale ci si sofferma più a lungo grazie anche al contributo “velenoso”
di Francesco Romanazzi, sommelier dell’Enoteca Bulzoni che definisce la cantina
dell’agro pontino “un tradimento, che fa vini ruffiani, tecnici ed industriali
provenienti dal posto meno vocato al mondo”. Quest’articolo ha scatenato il pandemonio
sui blog dedicati al vino, con tanto di risposte più o meno piccate dei diretti
interessati e chiamati in causa. Sono intervenuto anch’io nel mio piccolo ma
sento il bisogno di esprimersi in maniera più esaustiva sull’argomento.
Non voglio fare l’equilibrato
e non ci girerò intorno:io penso che i vini naturali siano la migliore
espressione del vino da un po’ di anni a questa parte e senza dubbio è da quel
gruppo, sempre più folto, che in questo momento provengono le eccellenze mondiali.
Questa considerazione va al di là dei vari gruppi, delle certificazioni, delle
fazioni interne e della pubblicità che alcuni produttori sanno farsi. Nel
gruppo da me considerato ci sono produttori che non hanno mai partecipato a
nessuna fiera di settore, nemmeno quelle di nicchia e che non gliene frega
niente di prendere la certificazione bio, logico o dinamico che sia. Però sono
vignaioli seri che non utilizzano sostanze tossiche e lieviti selezionati per
pompare i loro vini ed imbottigliano dopo duro lavoro in vigna, trasferendone
lo spirito in bottiglia. Ovvio, non tutti sono buoni, in molti confondono la
naturalità con la magia e credono che basti non usare fertilizzanti per avere
grandi risultati. Ma la media è molto alta e pian piano sempre più consumatori
se ne stanno accorgendo. Quindi quando mi dichiaro vicino alle posizioni di
Nossiter non lo dico per ideologia o per salutismo ma soprattutto perché penso
che i vini di quei vignaioli siano quasi sempre più buoni, più interessanti,
più emozionanti. Anch’io quando mi sono avvicinato al mondo del vino bevevo
Casale del Giglio, ero affascinato da Gaja e non schifavo certi vini di
Antinori. Poi però si cresce e si dovrebbe capire, sviluppando un gusto e
rendendosi conto delle differenze, saper assaporare gusti nuovi, mettere in
parallelo i diversi terroir. Purtroppo la realtà è che questo percorso viene
fatto da ben pochi conoscitori di vino, e di conseguenza da quasi nessun
consumatore casuale. E quando si sta un po’ in enoteca (a me capita spesso, non
solo per comprare ma anche perché ho parecchi amici enotecari) succede che
magari il proprietario ha fatto una ricerca minuziosa di etichette ma entra il
cliente che ti chiede i soliti grandi nomi. Allora diventa difficile, anzi
diventa quasi una missione pioneristica imporre al mercato le alternative, perché
per i vari Maule, Pepe, Roddolo, Porta del Vento, Del Prete, Haderburg,
Occhipinti, Amerighi, Terpin, Picariello e tanti altri è una lotta impari a
livello di comunicazione, marketing e diffusione dei prodotti se ogni canale
convenzionale incensa regolarmente chi ha un impero da milioni di bottiglie.
Qualcuno è riuscito con successo a sfidare questa legge, l’Enoteca Bulzoni su
tutti, che ha però da parte sua una storia ed una posizione (i Parioli) che gli
facilitano la strada. Ma la loro ampia gamma di vini naturali e di piccoli
produttori, la loro continua ricerca ed i loro prezzi più che onesti è così
lodevole che è quasi commovente nell’ambito dell’arido panorama romano.
Impossibile non citare Les Vignerons a Via dell’Acqua Bullicante, Off License a
Via Veio e Altobelli a Via Furio Camillo, piccoli avamposti dell’artigianato
vinicolo portati avanti con passione ed ostinazione.
Di certo nel mondo della
ristorazione le cose vanno sicuramente peggio. Mangiare fuori a Roma è ormai più
un pensiero che un piacere, quasi impossibile che vada tutto bene: servizio
pessimo, ambiente rumoroso, piatti deludenti, conto troppo salato…uno di questi
aspetti si verificherà nella maggior parte dei casi ed una volta fuori dal
locale si avrà spesso la sensazione che rimanere a casa sarebbe stata una
scelta migliore. Ma a questi aspetti si aggiunge quello fondamentale per le
argomentazioni di Nossiter, vale a dire la lista dei vini. L’argomento lo avevo
affrontato anch’io qualche post fa e che la situazione da quel punto di vista
sia infinitamente triste è purtroppo storia vecchia. Dell’articolo ha fatto
molto scalpore e creato discussione la parte sui ricarichi, ed anche se qualche
esempio riportato era al limite estremo (il Petrus a 6480 euro) c’erano cose di
cui i ristoratori in questione dovrebbero vergognarsi e chiedere umilmente
scusa, come il Trebbiano di Pepe (circa 18 euro in enoteca) in lista a 64 euro
al Sanlorenzo. Ma la parte più dura e secondo me più preoccupante riguardava l’entità
delle liste stesse, banali volumi apparentemente infiniti di etichette stanche
e scontate, una sorta di best-of dell’industria enologica, compilate senza un
minimo di passione o almeno di lontana idea di offrire qualcosa di diverso al
cliente. E’ come trovarsi in una trappola in cui si è costretti a bere
Cusumano, Feudi di San Gregorio, Sella & Mosca o Ruffino. Non se ne esce e
secondo me c’è un motivo storico: in questo paese non c’è cultura del bere. E’
triste da dire vista l’importanza internazionale dell’Italia in campo vinicolo,
ma il dato di fatto è che qui da noi si beve male, distrattamente, a casaccio.
Il cliente medio non ha curiosità, si fida cecamente di quei nomi che l’industria
e la pubblicità gli propinano e matura una sua convinzione, basata sul nulla,
che quelli siano i migliori vini esistenti. E non a caso la maggior parte di
quei vini sono fatti per impressionare al primo colpo, vini d’impatto che
lasciano la bocca dolce ma che difficilmente si fanno ricordare, quasi mai si
segnalano per una loro personalità, raramente emozionano. Ma non se ne esce se
non cambia la mentalità, se non si acquisisce un’apertura mentale che faccia in
modo che si abbia voglia di abbandonare nozioni standardizzate per scoprire (o
meglio Riscoprire) che c’è chi prova ad uscirne. E purtroppo gli interventi
contro Nossiter in questi giorni, che non sono mancati, sono stati spesso
indice dell’intolleranza a chi solo osa mettere i bastoni fra le ruote ad un
sistema apparentemente intoccabile. Ed è incredibile come i paralleli con
realtà sociali ben più serie vengano in mente.
Insomma, si, sono d’accordo
con Nossiter e credo che il polverone da lui alzato sia di fondamentale importanza
per muovere le acque nel mondo del vino italiano. Spero che almeno dopo le sue
parole chi già la pensava come lui prenderà un po’ di coraggio e comincerà a
far presente a ristoranti ed enoteche che i vini in lista sono tristi e poco
interessanti e che se ci fossero più etichette di vignaioli “veri”, si verrebbe
più volentieri a mangiare o comprare lì. Spero che i ristoratori e gli
enotecari stiano di più a sentire e si ricordino che il cliente non solo va
trattato con rispetto ma va incuriosito ed incentivato a provare qualcosa di
nuovo. Spero che queste speranze non si infrangano contro il solito cartello
del potere.
PS una sola cosa rimprovero a
Nossiter: l’avermi costretto a spendere un euro e cinquanta per comprare GQ,
rivista patinata che non avrei sfogliato mai nella vita se non avesse contenuto
il suo articolo. Vabè, per non farci caso mi berrò un bicchiere di Sassaia…
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