venerdì 13 gennaio 2012

I migliori vini del 2011


Il 2011 è stato un anno difficile, inutile negarlo. Al di là di considerazioni personali, l’andamento sociale, economico e politico è stato quelle che tutti conosciamo, che tutti abbiamo sofferto nel quotidiano, con sacrifici, rinunce, dolori. Per questo i pochi momenti di svago sono stati ancora più importanti del solito, perché concentrarsi in pensieri di serenità e di passione è fondamentale quando il contorno è buio. I miei momenti di svago coincidono spesso e volentieri con un bicchiere di vino. Una bottiglia stappata, bevuta, goduta, discussa tra amici e commensali è ormai un passaggio che nella mia vita corrisponde a serenità. E non è poco, chi condivide questa passione lo sa ma è facilmente trasferibile a qualsiasi altro tipo di attività nella quale si mettono anima e corpo.

I vini che ho bevuto lo scorso anno, almeno quelli che mi hanno particolarmente colpito, hanno un unico denominatore comune: la genuinità. Una volta cercavo vini costruiti, fatti per stupire, per essere i protagonisti a tavola. Con tutto il rispetto per quella tipologia, spesso corrispondente a rossi opulenti e pesanti, il mio gusto ha decisamente virato verso altri lidi. Il che non significa che i vini che prediligo non siano importanti. Anzi, la curiosità di riassaggiare tra dieci o quindici anni alcuni bianchi freschi e profumati ma allo stesso tempo complessi e personali c’è eccome, con la non tanto latente convinzione che il tempo possa regalare ulteriori emozioni. D’altronde uno dei vini con cui ho chiuso l’anno è stato il Cerasuolo d’Abruzzo di Valentini. Rosato tra i più importanti al mondo ma pur sempre rosato, quindi senza pretese di muscolosità. Eppure, con tutta la sua freschezza e la sua egregia bevibilità, la versione che ho aperto era datata 1978. 34 vendemmie fa. Ed era in gran forma. Alla faccia di chi pensa che solo i soliti supervini possano sfidare gli anni. Ecco quindi la mia lista, personale e a tratti legata a ricordi, dei migliori vini del mio 2011. Ne esistono tanti ed altri ancora superiori a questi. E ce ne sono altrettanti che purtroppo mi dimentico. Ma queste sono le mie sensazioni. E non c’è punteggio che potrà classificarle.

(ad ogni vino è associata una canzone che in qualche modo consiglio di ascoltare durante la bevuta. Non so se tutto questo abbia un senso, però abbinare vino e musica è uno dei piaceri della vita. Provate se volete)

SOUS LE CAILLOUX DES GRILLONS 2008 – CLOS DU GRAVILLAS
Frutta, mediterraneo e schizzi di nero in questo blend tipico del SudOvest francese, segnato dal Carignan. Tramonti giovanili e l’odore dei sassi bagnati ai bordi del fiume. “Rebel Rebel” di David Bowie.

GOLFO DEI POETI ALBAROLA 2009 – SANTA CATERINA
Albarola, vitigno che si inerpica sulla montagna dal mar Ligure, ci racconta lo splendido panorama che vede, tra erbe aromatiche, salsedine e terra. La macerazione la rende ancor più viva. “Red China Blues” di Miles Davis.

CHAMPAGNE BRUT NATURE – DEMARDE FRISON
Uno Champagne dell’Aube, terra fuori dai nobili Cru, capace di stupire ed inebriare. Dritto, inappuntabile, minerale, gustoso. Lontano dalle paillette, vicino alla terra. Come dovrebbe essere. “In The Silence Of The Morning” degli Agitation Free.

GRAN ROSSO DEL VICARIATO – CANTINA SOCIALE DI QUISTELLO
I rossi frizzanti hanno accompagnato i miei momenti più spensierati e li amo così tanto che credo lo continueranno a fare. Quelli veri, come il Lambrusco Maestri della miracolosa Cantina di Quistello permettono di sfatare ogni luogo comune sulla tipologia. Da non svilire. “Sweet Jane” dei Velvet Underground.

BOURGOGNE CHARDONNAY 2007 – HORONCE DE BELER
Il coraggio di chi lascia la Ville Lumière e le sue certezze per l’incognita della vigna borgognona. Ecco cosa si trova in questo affascinante e tutt’altro che semplice Bourgogne, un vino che cresce e che cambia, che ammalia e che conquista, come la passione dei pazzi. “People Music” di Herbie Hancock.

ALBARINO 2009 – MARTIN CODAX
L’albarino è il profumo dell’erba bagnata dalla pioggia, è una passeggiata di sera lungo il porto, è una chiacchierata dopo il lavoro. L’albarino è la Galizia, il suo spirito, la sua bellezza. Bisogna capirlo, ma si amerà anche mentre ci si fanno domande. “Crying” dei TV On The Radio.

SEMPREMAI 2008 – PODERE SANTA FELICITA’
Vin de garage se ce n’è uno, da un vitigno sconosciuto al mondo (Arbrostine, dice niente?) e da un territorio poco battuto come il Casentino, non ha eguali per territorialità e piacevolezza. Spezie, acidità, montagne, nebbia. Secondo, terzo, quarto bicchiere. “Like Cuckatoos” dei Cure.

TRENTO DOC BRUT – REVI’
Lo spumante in Trentino è storia e non importa se sono altre le zone alla moda, il top in Italia è sotto le Dolomiti, uno degli interpreti si chiama Revì, portatore di gusto non scontato, di perlage elegante, di facilità di beva e di lungo finale. A me basta. Anzi, ne voglio ancora. “Disillusioned Man” dei Demon Fuzz.

MACON-CRUZILLES 2008 – DOMAINE VIGNES DU MAYNES
La terra in fondo è la stessa, e si sente. Solo che la Borgogna che conta sta a nord e di certo non utilizza Gamay per i suoi fantastici rossi. In questo bicchiere la terra è un po’ più assolata e al sottobosco infinito del Pinot Nero, si sostituisce la scorbuticità del Gamay. Genio e sregolatezza. Sorprendente. “Fool On The Hill” dei Beatles.

SAHARAY 2009 – PORTA DEL VENTO
Un viaggio sotto il sole della Sicilia più brulla, quella di Porta del Vento, interprete di vini magistrali ed incredibilmente territoriali, dal Nero D’Avola al Perricone, ai rosati ma su tutti questo fantastico Catarratto macerato che sa di vita vissuta lentamente con schizzi di emozioni frenetiche. “Drove Through Ghosts To Get Here” dei 65Daysofstatic.

CHAMPAGNE BRUT BLANC DE BLANCS – LAHERTE FRERES
Se l’eleganza incontra l’imprevidibilità e la tradizione va a braccetto con la creatività, si brinda con Laherte Freres. Tutto ciò che si chiede ad uno Champagne da Chardonnay, senza fronzoli e con tanta sostanza, per accompagnare tutti i pasti che passano per i fornelli. “Lovers On Main Street” dei Japan.

SAUMUR CHAMPIGNY L’INSOLITE 2009 – DOMAINE DES ROCHES NEUVES
Il Cabernet Franc è il vitigno del mio cuore e anche se lo Chinon Les Clos Guillot di Bernard Baudry rimane per me inarrivabile, questo Insolite mi ha pian piano conquistato per il modo in cui si estranea dal mondo e porta il suo erbaceo in spazi bui e sconosciuti. “Eve Of Eternity” degli Eiliff.

SALICE SALENTINO IL PIONIERE 2009 – NATALINO DEL PRETE
Chi l’ha detto che la rusticità non può essere di classe?mettete il naso nel selvaggio Salice di Natalino, poi aspettate un po’ e sentite cosa succede. E soprattutto, assaggiatelo: succoso, saporito, pieno. E mai stanco. Lo specchio di chi lo fa. “The Other Side Of Town” di Curtis Mayfield.

NOT 2009 – PARASCHOS
Pensate al Pinot Grigio e rivoltate le vostre idee, forse vi avvicinerete alla verità. “Not”, la negazione per eccellenza, o semplicemente la fine di Pinot, interpretato magistralmente e come la storia vuole, ad ottenere una sorta di rosè, nella zona italiana dove rende al meglio, il Collio. “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges.

CREMANT D’ALSACE – JULIAN MEYER
L’Alsazia entra nel cuore prima coi suoi panorami, poi con la sua gente e poi con i suoi incredibili vini. Molti dei bianchi più buoni vengono da qua, per eleganza, complessità e fascino. Julian Meyer ne fa di eccezionali. Ma l’etichetta che scelgo è il suo Cremant. Spumante da camino, etereo, gustoso, infinito. “It Could Be Sweet” dei Portishead.

PIETRO BIANCO 2009 – DANIELE PORTINARI
Meglio il silenzio del frastuono, meglio le cose piccole che le esagerazioni. Scontato ma così difficile da applicare. Ci riesce Daniele Portinari col suo silenzioso e piccolo bianco, così genuino e personale che riconcilia con l’idea spesso abusata di artigianato. “The Daily Planet” dei Love.

VOUVRAY LA DILETTANTE 2009 – BRUTON
Benvenuti a Vouvray dove tutto è diverso. Qui se ne fregano del gusto globale, dell’industria, delle belle etichette, dello shock a tutti i gusti. Qui si vinifica Chenin Blanc, vitigno tosto se ce n’è uno, acido, dritto, delicato. Provare La Dilettante di Bruton per credere. Magia allo stato puro. “Area” dei De La Soul.

BARBARESCO RABAJA’ RISRVA 2004 – CORTESE
Un vino rosso importante ben fatto, ormai è difficile trovarne. Occorre andare nelle Langhe, lì il compito è facilitato e scegliere non è facile. Tra tanti promettenti baroli, mi ha rapito il Barbaresco Rabajà Riserva di Cortese. Frutta ed orizzonti cupi, acidità, sapore, lunghezza infinita. “Electric Funeral” dei Black Sabbath.

CESANESE DI OLEVANO ROMANO SILENE 2009 – DAMIANO CIOLLI
Lo ammetto, questo vino non dovrebbe esserci perché lo conoscevo già bene. Ma ogni anno mi colpisce perché interpreta l’annata ed esalta quel gran vitigno che è il cesanese. E rimane una delle poche isolate eccellenze di una viticoltura laziale ancora schiava dei soliti nomi. “The Ballad Of Dorothy Parker” di Prince.




venerdì 6 gennaio 2012

Nossiter, anch'io dico la mia


Non ce la faccio, non posso non dire anch’io la mia sull’articolo di Jonathan Nossiter pubblicato su GQ. Ma cominciamo dall’inizio perché troppe cose sono state date per scontate. Innanzitutto, la premessa obbligatoria: Jonathan Nossiter è un regista americano che gli appassionati di vino conoscono quanto (forse meglio) degli appassionati di cinema. La ragione è un suo film-documentario di grande successo chiamato “Mondovino” seguito a qualche anno di distanza dal libro “Le Vie del Vino”, due opere con un chiaro argomento affrontato con un approccio che qualcuno ha definito “No Global”, qualcun altro “sovversivo”, altri addirittura lo hanno considerato politicizzato ed anti-establishment. In realtà sia nel film che nel libro Nossiter sottolineava le differenze tra l’azienda enologica dominante nel mondo, quella fondata su cantine da milioni di bottiglie e vini allineati al gusto imposto dal mercato, e tra i pochi vignaioli che cercano di lavorare per fare vini che rispecchino il territorio da cui provengono, cercando di stare lontano da consulenti enologici, mode commerciali e quant’altro possa costituire una manipolazione della naturalità di un prodotto della terra come il vino. Senza dubbio Nossiter mostra un interesse ed una simpatia maggiore per questi ultimi, un sentimento che probabilmente ogni vero appassionato di vino ed ogni persona dotata di una minima eticità non può che condividere.

Nossiter, giramondo da sempre, figlio di giornalista e marito di un’artista brasiliana, vive a Roma da un po’, ed in questi giorni un suo articolo sulla rivista GQ ha fatto scoppiare la bomba nel mondo della ristorazione romana e nell’industria vinicola italiana tutta. Articolo nel quale il regista è ben più diretto che nelle opere precedentemente citate nell’accusare il mondo dei vini industriali  e la triste situazione delle liste dei vini dei ristoranti romani, banali, piene di grandi nomi e con ricarichi spesso esagerati. Vengono fatti anche i nomi, sia dei ristoranti (nello specifico finiscono sotto accusa “Felice a Testaccio”, “Il Convivio” e “Il Sanlorenzo” ma anche le parole virgolettate del sommelier de “La Pergola” non fanno fare bella figura al ristorante pluristellato di Heinz Beck) e le cantine, tra cui le ovvie Antinori, Zonin, Frescobaldi ma anche Gaja e soprattutto Casale del Giglio, sulla quale ci si sofferma più a lungo grazie anche al contributo “velenoso” di Francesco Romanazzi, sommelier dell’Enoteca Bulzoni che definisce la cantina dell’agro pontino “un tradimento, che fa vini ruffiani, tecnici ed industriali provenienti dal posto meno vocato al mondo”. Quest’articolo ha scatenato il pandemonio sui blog dedicati al vino, con tanto di risposte più o meno piccate dei diretti interessati e chiamati in causa. Sono intervenuto anch’io nel mio piccolo ma sento il bisogno di esprimersi in maniera più esaustiva sull’argomento.

Non voglio fare l’equilibrato e non ci girerò intorno:io penso che i vini naturali siano la migliore espressione del vino da un po’ di anni a questa parte e senza dubbio è da quel gruppo, sempre più folto, che in questo momento provengono le eccellenze mondiali. Questa considerazione va al di là dei vari gruppi, delle certificazioni, delle fazioni interne e della pubblicità che alcuni produttori sanno farsi. Nel gruppo da me considerato ci sono produttori che non hanno mai partecipato a nessuna fiera di settore, nemmeno quelle di nicchia e che non gliene frega niente di prendere la certificazione bio, logico o dinamico che sia. Però sono vignaioli seri che non utilizzano sostanze tossiche e lieviti selezionati per pompare i loro vini ed imbottigliano dopo duro lavoro in vigna, trasferendone lo spirito in bottiglia. Ovvio, non tutti sono buoni, in molti confondono la naturalità con la magia e credono che basti non usare fertilizzanti per avere grandi risultati. Ma la media è molto alta e pian piano sempre più consumatori se ne stanno accorgendo. Quindi quando mi dichiaro vicino alle posizioni di Nossiter non lo dico per ideologia o per salutismo ma soprattutto perché penso che i vini di quei vignaioli siano quasi sempre più buoni, più interessanti, più emozionanti. Anch’io quando mi sono avvicinato al mondo del vino bevevo Casale del Giglio, ero affascinato da Gaja e non schifavo certi vini di Antinori. Poi però si cresce e si dovrebbe capire, sviluppando un gusto e rendendosi conto delle differenze, saper assaporare gusti nuovi, mettere in parallelo i diversi terroir. Purtroppo la realtà è che questo percorso viene fatto da ben pochi conoscitori di vino, e di conseguenza da quasi nessun consumatore casuale. E quando si sta un po’ in enoteca (a me capita spesso, non solo per comprare ma anche perché ho parecchi amici enotecari) succede che magari il proprietario ha fatto una ricerca minuziosa di etichette ma entra il cliente che ti chiede i soliti grandi nomi. Allora diventa difficile, anzi diventa quasi una missione pioneristica imporre al mercato le alternative, perché per i vari Maule, Pepe, Roddolo, Porta del Vento, Del Prete, Haderburg, Occhipinti, Amerighi, Terpin, Picariello e tanti altri è una lotta impari a livello di comunicazione, marketing e diffusione dei prodotti se ogni canale convenzionale incensa regolarmente chi ha un impero da milioni di bottiglie. Qualcuno è riuscito con successo a sfidare questa legge, l’Enoteca Bulzoni su tutti, che ha però da parte sua una storia ed una posizione (i Parioli) che gli facilitano la strada. Ma la loro ampia gamma di vini naturali e di piccoli produttori, la loro continua ricerca ed i loro prezzi più che onesti è così lodevole che è quasi commovente nell’ambito dell’arido panorama romano. Impossibile non citare Les Vignerons a Via dell’Acqua Bullicante, Off License a Via Veio e Altobelli a Via Furio Camillo, piccoli avamposti dell’artigianato vinicolo portati avanti con passione ed ostinazione.

Di certo nel mondo della ristorazione le cose vanno sicuramente peggio. Mangiare fuori a Roma è ormai più un pensiero che un piacere, quasi impossibile che vada tutto bene: servizio pessimo, ambiente rumoroso, piatti deludenti, conto troppo salato…uno di questi aspetti si verificherà nella maggior parte dei casi ed una volta fuori dal locale si avrà spesso la sensazione che rimanere a casa sarebbe stata una scelta migliore. Ma a questi aspetti si aggiunge quello fondamentale per le argomentazioni di Nossiter, vale a dire la lista dei vini. L’argomento lo avevo affrontato anch’io qualche post fa e che la situazione da quel punto di vista sia infinitamente triste è purtroppo storia vecchia. Dell’articolo ha fatto molto scalpore e creato discussione la parte sui ricarichi, ed anche se qualche esempio riportato era al limite estremo (il Petrus a 6480 euro) c’erano cose di cui i ristoratori in questione dovrebbero vergognarsi e chiedere umilmente scusa, come il Trebbiano di Pepe (circa 18 euro in enoteca) in lista a 64 euro al Sanlorenzo. Ma la parte più dura e secondo me più preoccupante riguardava l’entità delle liste stesse, banali volumi apparentemente infiniti di etichette stanche e scontate, una sorta di best-of dell’industria enologica, compilate senza un minimo di passione o almeno di lontana idea di offrire qualcosa di diverso al cliente. E’ come trovarsi in una trappola in cui si è costretti a bere Cusumano, Feudi di San Gregorio, Sella & Mosca o Ruffino. Non se ne esce e secondo me c’è un motivo storico: in questo paese non c’è cultura del bere. E’ triste da dire vista l’importanza internazionale dell’Italia in campo vinicolo, ma il dato di fatto è che qui da noi si beve male, distrattamente, a casaccio. Il cliente medio non ha curiosità, si fida cecamente di quei nomi che l’industria e la pubblicità gli propinano e matura una sua convinzione, basata sul nulla, che quelli siano i migliori vini esistenti. E non a caso la maggior parte di quei vini sono fatti per impressionare al primo colpo, vini d’impatto che lasciano la bocca dolce ma che difficilmente si fanno ricordare, quasi mai si segnalano per una loro personalità, raramente emozionano. Ma non se ne esce se non cambia la mentalità, se non si acquisisce un’apertura mentale che faccia in modo che si abbia voglia di abbandonare nozioni standardizzate per scoprire (o meglio Riscoprire) che c’è chi prova ad uscirne. E purtroppo gli interventi contro Nossiter in questi giorni, che non sono mancati, sono stati spesso indice dell’intolleranza a chi solo osa mettere i bastoni fra le ruote ad un sistema apparentemente intoccabile. Ed è incredibile come i paralleli con realtà sociali ben più serie vengano in mente.

Insomma, si, sono d’accordo con Nossiter e credo che il polverone da lui alzato sia di fondamentale importanza per muovere le acque nel mondo del vino italiano. Spero che almeno dopo le sue parole chi già la pensava come lui prenderà un po’ di coraggio e comincerà a far presente a ristoranti ed enoteche che i vini in lista sono tristi e poco interessanti e che se ci fossero più etichette di vignaioli “veri”, si verrebbe più volentieri a mangiare o comprare lì. Spero che i ristoratori e gli enotecari stiano di più a sentire e si ricordino che il cliente non solo va trattato con rispetto ma va incuriosito ed incentivato a provare qualcosa di nuovo. Spero che queste speranze non si infrangano contro il solito cartello del potere.

PS una sola cosa rimprovero a Nossiter: l’avermi costretto a spendere un euro e cinquanta per comprare GQ, rivista patinata che non avrei sfogliato mai nella vita se non avesse contenuto il suo articolo. Vabè, per non farci caso mi berrò un bicchiere di Sassaia…