domenica 21 dicembre 2014

Falestar - Bortolotti

La bellezza dei vini quotidiani sta nel loro modo di esprimere non solo un territorio, ma un modo di vivere. Bevendoli si entra nelle abitudini dell'operaio in pausa pranzo, della famiglia riunita a cena, della scampagnata nel giorno di festa, nel profumo delle pietanza in cottura. Momenti simili in ogni regione, differenziati dal vino che va a finire nel bicchiere, di solito il simbolo di quella parte del mondo, un umile quanto importantissimo vanto che ogni paesano sente un pò suo. 

Purtroppo questa bellezza ha subito tanti ed ahimè spesso riusciti tentativi di offuscamento da parte della produzione seriale che ha ridotto etichette storiche a lontane fotocopie di ciò che erano in origine, per accontentare la grande distribuzione e lucrare il più possibile facendo della tradizione un mero business. Alcuni vini sono addirittura scomparsi o quasi, di altri per anni si è persa quella che era la loro vera identità. Un vino che potrebbe rientrare in entrambe queste categorie è il Pignoletto: vitigno storico dei Colli Bolognesi, è l'alternativa bianca ai frizzanti rossi dell'Emilia, ma è buono anche quando è vinificato fermo. Sempre prodotto in quantità limitata alla regione, è stato sostanzialmente vittima dell'invasione dei brutti prosecchi o simili, e quel poco reperibile sembrava essersi adeguato a quella corrente.

Ma non bisogna mai disperare, perchè silenti nella loro piccola cantina ci sono sempre degli artigiani "pazzi" che ci credono, ed il crescente movimento dei vini naturali ha trascinato alcuni di loro ad uscire allo scoperto, rendendo possibile a noi consumatori l'approccio con pignoletti di ottima fattura. Chi che me lo ha fatto riscoprire ed amare è stata senza dubbio Maria Bortolotti. che in realtà lavora sul suo vigneto a Zola Predosa dal 1987, in maniera seria e rispettosa della natura, con la passione che la porta ad imbottigliare vini fuori dalle regole, personali, espressivi e mai banali.

Di tutta la sua interessante gamma, dalle etichette con nomi fantasy, non riesco a star lontano dal Falestar, il Pignoletto rifermentato in bottiglia che è una goduria assoluta. I suoi lieviti sono presenti come da tradizione del metodo ancestrale, vinficazione classica in bianco e solforosa ai minimi livelli. Secco e lievemente aromatico, la sua delicatezza è la sua forza, spinta anche da una bella acidità, Con i suoi 12 gradi abbondanti non è di certo un vino pesante ma ha la forza giusta anche per essere aperto a tavola. Di sicuro la cucina familiare bolognese, a partire dagli affettati e dalle tigelle, ne saprà esaltare tutta la piacevolezza. Poche bottiglie prodotte, prezzo assolutamente irrisorio (meno di 10 euro) e scommessa vinta. Cercatelo, apritelo, godetevelo. E per chi non lo ha già fatto, scordatevi certi tristi prosecchi. Buone feste!

domenica 14 dicembre 2014

Nigrum 2011 - Podere Veneri Vecchio

Dice "eh ma l'aglianico è il barolo del sud", oppure "no io l'aglianico non lo considero proprio", e ancora "l'aglianico va bene se ci mangi piatti pesanti ed abbondanti". Sarà, ma io in questi anni di assaggi ho capito due cose sull'aglianico: che è un vino di cui si "dice" troppo e che soprattutto si bevono troppo spesso gli aglianici sbagliati. Tutto il resto è un mistero, ma un mistero bello, da scoprire con curiosità ed entusiasmo, come le zone in cui questo vitigno dà il suo meglio, dal Vulture al Taurasi, dal Molise al Sannio. Zone che non fanno nulla per farsi piacere ma che hanno tanto per essere amate.

Oggi mi soffermo proprio nel Sannio, per un aglianico del beneventano prodotto da una delle cantine più interessanti in cui io mi sia imbattuto negli ultimi anni: il Nigrum di Podere Veneri Vecchio.

Raffaello Annichiarico, l'agronomo e deus ex machina dell'azienda, non utilizza giochi di parole o aforismi, e non ha paura di etichette per descrivere i suoi vini. Li chiama vini naturali, perchè "il presupposto della cantina è quello di salvaguardare la terra, le piante e l'uomo lavorando con prodotti che non compromettono l'ambiente nella sua più ampia concezione". Il concetto del tempo è spesso sottolineato quando si parla di viticoltura e produzione di vino in generale, laddove si concepisca come attesa, pazienza, o svolgimento di fasi della vita. Un approccio filosofico e poetico che rende le parole per descrivere i vini assaggiati poco consone per darne un senso totale. Ci provo comunque, perchè qui si lavora bene, e ciò che finisce nel bicchiere è sempre di piacevolezza ed interesse unici.

Il Nigrum si potrebbe definire l'aglianico "base" della cantina, seppur non si debba pensare ad un vino incapace di invecchiare o tanto meno destinato ad un uso blando. Parliamo comunque di un cru dal vigneto di Castelvenere, a 250 m sul livello del mare, contatto sulle bucce per circa trenta giorni, lungo affnamento in acciaio e passaggio finale in barrique usate. Ovviamente lieviti indigeni per la fermentazione ed in cantina (seminterrata) il fresco è garantito naturalmente, senza controllo della temperatura. Se ne ottiene un aglianico di spiccata acidità, evidente nota terrosa e frutto che sembra quasi proteggersi in una cupa membrana fatta di note inchiostrate, vinosità e sottobosco. E' un vino che si fa bere con estrema facilità e che cerca il cibo senza essere troppo pretenzioso. Versatile a tavola, io l'ho apprezzato sia con pasta al forno che con il bollito di manzo.

Insomma, il Nigrum non vi svelerà i misteri dell'aglianico e sicuramente non vuole farlo. Bevendolo potrete assaporare tutta l'essenza di questo vitigno e del suo territorio, capaci di spiazzare, sorprendere e sopratutto, farvi stare bene.

mercoledì 3 dicembre 2014

Brut Nature - Tarlant

Bere Champagne è una di quelle cose di cui non ce n'è mai abbastanza. Possiamo riempirci la bocca con duemila discorsi di moralità, di opportunità, di sensi di colpa e di risparmi da fare e non fatti, magari anche tutti giusti. Non importa, date un bicchiere di Champagne al 99% delle persone a cui piace il vino e loro ne vorrano ancora, e saranno contenti di averlo bevuto. Qui non conta il bene e il male, conta che, piaccia o no a chi dice che "eh ma anche in Italia abbiamo grandi spumanti", lo Champagne ha una magia che va oltre l'etichetta, oltre il brindisi ed oltre l'effervescenza. Lo Champagne è unico, inimitabile e ne abbiamo bisogno. E se non costasse caro personalmente berrei quasi esclusivamente litri di bolle da Reims e dintorni.


Tornando a parlare da sobrio, devo anche sottolineare che la maggior parte della gente beve Champagne di mediocre qualità, quelli largamente distribuiti e prodotti dalle solite grandi case dal marchio inconfondibile e dal gusto rassicurante quanto noioso. Fortunatamente lo Champagne in realtà è soprattutto altro, anzi, a dispetto della sua immagine patinata, è un vino contadino, fatto in tante piccole cantine spesso situate nei seminterrati di appartamenti di vignaioli che hanno le uve piantate nel vigneto fuori la loro casa. Queste sono le persone che rendono indimenticabile un viaggio nella regione del più grande metodo classico esistente, tra il verde delle infinite vigne che dominano un panorama fatto di piccoli villaggi con dieci tetti e due bar ma che si conoscono in tutto il mondo perchè sono loro a dare i nomi ai Cru: Avize, Cramant, Ay, Ambonnay e tanti altri. Paesini che se non fosse per lo Champagne sarebbero al massimo immagini di sfondo ad un viaggio in macchina da Parigi verso il Belgio.

In mezzo poi ci sono realtà che da contadine sono diventate di numeri più importanti, sapendo mantenere sempre altissimo il livello dei loro prodotti.
E' il caso di Tarlant, domaine familiare la cui tradizione di vinificatori risale addirittura al 1700, ora condotta dall'ultima generazione che lavora nelle cantine di Oeuilly (15 km ad ovest di Epernay) le uve raccolte su 14 ettari di vigne sparse in quattro differenti Cru. Per quanto sia molto complicato avere un terreno sano in questa regione abusata dai grandi numeri, i Tarlant cercano di ridurre al minimo l'utilizzo di agenti esterni in vigna, dove la raccolta è manuale, ed eventuali fertilizzanti sono comunque organici. In cantina si mantiene uno stile preciso dettato da un dosaggio sempre molto basso, tanto che nessuno dei loro Champagne supera i 6mg/l di zuccheri. Non a caso la loro cuvèe base, di cui parlo è qui è un "nature" (zero zuccheri). Ed è maledettamente buono.

Classica composizione champenoise con Chardonnay, Pinot Nero e Meunier equamente distribuiti, questo Nature ha una carbonica composta ed elegante che trova il suo posto nel colore dorato, per poi dare subito spazio ad un naso originale ed intrigante, fatto di agrumi in evidenza, ma anche note di erba fresca ed uno sfondo quasi etereo. Il suo gusto è d'impatto immediato, di ottima e raffinata acidità, di un corpo che entusiasma e conquista, una mineralità che pian piano si fa largo, senza invadere il perfetto equilibrio. Lungo e mai banale, difficile, impossibile da lasciare in bottiglia. Uno Champagne da bere sempre, perchè in fondo abbinare un vino come questo è una questione di momenti, di sensazioni, di combinazioni. Brindateci prima di un pasto. Mangiateci il pesce. Oppure un risotto con funghi. Comunque, uscirete contenti. E di sicuro ne chiederete ancora.        

martedì 25 novembre 2014

Ed ora, qualche birra buona

Il blog si chiama wine vibration ma ciò che mi ha spinto ad immergermi nel mondo del bere bene, a dir la verità, è stata la birra. Galeotto fu un viaggio in Belgio di oltre 15 anni fa, dove riuscì a vedere da vicino e ad approfondire quello che era un'interesse già presente ma vissuto superficialmente. Ed è paradossale perchè quel viaggio mi fece capire l'importanza della bevanda a tavola, l'arte dell'abbinamento col cibo, il modo di concepire un prodotto partendo da cultura e tradizione e passando per creatività ed entusiasmo. Per questo mi fanno ridere le faide tra amanti del vino e birrofili, così come guardo con simpatia e con un pizzico di superbia il boom delle birre artigianali che ormai sembrano diventate un calderone in cui troppi si buttano anche senza averne diritto.

Detto questo, continuo a bere volentieri e spesso birra, viaggiando tra stili, tipologie e paesi e sempre alla ricerca di artigiani in grado di offrire prodotti di qualità. In questo post parlo di quelle che mi sono piaciute di più ultimamente, e conto di fare di questo resoconto birrario un appuntamento mensile del blog, sperando di fare cosa gradita. Mi fermerò alla sostanza ma per avere più informazioni e curiosità, allego i link di ogni birrificio. Prosit.

Moor Nor Hop (Golden Ale) giovane birrificio inglese del Sommerset con birraio americano, Moor fonde le tradizioni dei due paesi producendo birre di grande equilibrio e gusto. La Nor Hop, bevuta alla spina, pur essendo fatta con luppoli americani, mantiene la classicità delle golden ale inglesi. Tipico colore dorato pallido, floreale ed agrumata senza esagerare, ha un finale di contrasto dolceamaro. Beverina come poche, da aperitivo ma anche da pesce al forno con patate.

Ritterguts Original Gose (Gose) stile che spiazza, Gose sono birre saline ed acide che ricordano non solo per assonanza le Gueuze belghe anche se prodotte in modo completamente diverso. E' la birra di Lipsia ed è ovviamente da qui che viene questo storico birrificio. L'ho provata sia in bottiglia che alla spina. In entrambi i casi è quasi piatta (pochissima schiuma), colore dorato medio, profumi lattici e di acqua marina, con tocchi vegetali. In bocca arriva l'acidità ed una salinità presente ma non esuberante, ed un corpo esile ed al contempo tonico la rendono irresistibile e gustosissima. Da bere e ribere, in ogni occasione, anche a tutto pasto.

Birrificio Sant'Andrea Funky (Porter) l'anima punk la fa da padrone in questo birrificio vercellese, che in realtà trasferisce uno spirito libero, anche musicalmente parlando, alle sue birre. Ed è bello non prendersi troppo sul serio in un mondo che in alcune situazioni sembrava volere rincorrere ambienti troppo patinati. Non si prendono sul serio ma sono serissimi quando lavorano e si vede il risultato anche in questa Funky, una porter (bevuta in bottiglia da 0.33 purtroppo in un triste bicchiere di plastica) che risulta piacevolmente morbida e per niente pesante nonostante i suoi 6.6%. Classiche note tostate giungono al naso dal suo bel nero lucido, leggera affumicatura, bellissimo impatto al palato, gusto profondo e non stancante, il tutto per una birra versatile, compagna di una bevuta in libertà ma consigliatissime in abbinamento ad un bel pranzo invernale, magari a base di polenta ai funghi e formaggi.

Fyne Ales Jarl (Session Ale) nel mezzo della desolata quanto affascinante campagna scozzese non ci sono solo distillerie ma anche questo eccellente birrificio in opera dal 2001. Le loro birre puntano al sapore e sono tendenzialmente di bassa gradazione, L'esempio più fulgido del loro stile è senza dubbio la Jarl, esistente dal 2010 ma già pluripremiata, viene indicata come "session ale", il che rende l'idea. Non arriva a 4 gradi, è classicamente bionda, secca, agrumata, di buon corpo ed incredibilmente beverina, Altra ale per gli amanti del genere che saprà conquistare anche il bevitore casuale. Bevuta alla spina.

Math La 70 (Belgian Ale) visto che finora ho parlato solo di birre beverine o giù di lì, concludo con una birra proveniente da questo interessante birrificio toscano, situato a Tavernelle Val di Pesa, vicino Firenze, e creato da un birraio, Mathieu Ferrè, che in realtà è franco-spagnolo. Le sue birre sono numerate e riportano in etichetta una frase emblematica. La 70 è una ale in stile belga, tipologia che affrontata lontano dal suo paese d'origine può portare spesso a squilibri a favore di un alcool preponderante sul gusto. Non è questo il caso. Qui troviamo si un corpo robusto ma il bel mix di spezie dolci, arancia amara e note erbacea la rendono rotonda e persistente. Soddisfacente a tavola in abbinamento al risotto zucca e salsiccia, com'è capitato di berla a me, in bottiglia da 0.75


domenica 16 novembre 2014

Edelzwicker - Gerard Schueller

La premessa è obbligatoria: questo è un vino che non potrà piacere a tutti. Almeno non ancora. Non ancora perchè quel piccolo, buio e nascosto angolino di ottimismo che risiede da qualche parte dentro me mi fa sperare che un giorno certi vini accoglieranno i favori del grande pubblico, che comincerà a trovare banali i vini bellocci e tecnicamente perfetti che sono spaventosamente tutti uguali e che non fanno porre domande a chi beve.
Perchè dico questo? perchè l'Edelzwicker di Gerard Schueller non accetta compromessi: è un vino della casa nel miglior senso del termine. D'altronde con il termine "edelzwicker" che si traduce con "uvaggio nobile" si etichettano quei vini ottenuti appunto con l'insieme di diversi vitigni (Riesling, Muscat, Pinot Grigio e Sylvaner soprattutto), una pratica che in Alsazia è storicamente riservata per il vino semplice, mentre per i vini più importanti si vinifica in purezza, con risultati spesso grandiosi che portano i bianchi regionali ad essere tra i più eleganti e quotati del mondo.

Facile allora trovare edelzwicker di pessima qualità, anonimi, fatti per un mercato poco curante della qualità. Ma alla versione di Gerard Schueller tutto si può dire tranne che "anonimo". Viticultore che non si è lasciato travolgere dalla moda, vinifica ottimi bianchi su diversi Grand Cru senza interventi in vigna e in cantina, compresa l'assenza totale di filtraggio e solforosa, dimostrando che l'eleganza dei vitigni alsaziani può emergere anche lavorando
in maniera rispettosa della natura e della tradizione. Nel suo Edelzwicker, in bottiglia da litro, questo concetto è portato all'estremo assoluto. Colore giallo dorato che vira verso il nocciola, totalmente torbido (mi sarebbe piaciuto farlo giudicare all'AIS con la loro mitica scheda a punti che classifica anche la limpidezza), impatto olfattivo tagliente, da note nette di acetone, vernice e qualcosa di colloidale fino all'ingentilimento della frutta esotica, albicocca secca, succo di mela, erba di campo. Poi si assapora ed ecco la lama che divide in due lingua ed opinioni: acidità esuberante, forte, forse esagerata. Note di volatile senza dubbio, e siamo al solito discorso, chi la reputa, almeno in alcuni vini, un implemento alla facilità di beva (è il mio caso), chi non la tollera mai. Qualsiasi sia l'opinione, è bello andare avanti e godersi la semplicità che amplifica il territorio e la sua mineralità, la sua personalità, la sua storia. Lunga la persistenza e bellissimo il sapore. Vino da merenda da bere in qualsiasi occasione, io l'ho trovato un ottimo compagno della pasta con salsa alle noci. Pensa te.

Gerard Schueller non ha un sito ed è anche raro trovarlo a manifestazioni vinicole ma sarà contento di accogliere chiunque voglia andarlo a trovare in cantina, tra gli splendidi scorci alsaziani.
Questo è il suo indirizzo:

1 Rue des Trois Châteaux, 
68420 Husseren-les-Châteaux (a sud ovest di Colmar)
Alsazia, Francia



giovedì 13 novembre 2014

Paski 2011 - Cantina Giardino



Quando penso a Cantina Giardino non so essere felice per la crescita del successo dei loro vini o se rammaricarmi per il fatto che tutto sommato questa è ancora una realtà di nicchia nel mercato italiano. Contraddizioni tristemente tipiche in un paese maestro nel rigirare frittate e che rende vittime i carnefici e viceversa. In questo caso il paragone col mondo del vino, il carnefice che passa da vittima è la grande industria che tramite i suoi soliti ambasciatori attacca continuamente il mondo del vino artigianale trasformandolo in una realtà fatta di fanatici esaltati che con le loro fisse naturalistiche potrebbero mettere a repentaglio il sistema agricolo tutto. A questi maramaldi si accodano fenomenali blogger (ma blogger di mestiere, quelli che forse ce l'hanno pure sulla carta d'identità e non scribacchini da dopolavoro come il sottoscritto) che non perdono occasione per ricordare ai loro avidi seguaci che i vini naturali puzzano e sono solo una moda che passerà. Moda de che poi, visto che io in ogni bar/osteria/ristorante in cui mi capita di mettere piede da nord a sud vedo sempre e solo i soliti vini in scaffale, ma vabbè.





OK, lo spazio per la polemica di pancia è stato fin troppo e sicuramente ne ha tolto altrettanto al protagonista di questo, che è un vino per cui le parole d'elogio non sono mai abbastanza. Il Paski di Cantina Giardino è un vino a base del vitgno Coda di Volpe, autoctono irpino semidimenticato la cui essenza si può ritrovare in questa bottiglia. Come tutti i vini di Cantina Giardino, progetto culturale oltre che enologico fondato dal poliedrico quanto semplice vignaiolo Antonio Di Gruttola, il Paski non ha nessun tipo di compassione per il bevitore casuale e distratto: è un vino rustico nel miglior senso della parola. Macerato per tre giorni sulle bucce, l'assenza di filtrazione lo rende torbido alla vista, i profumi sono schietti e forti, dal fieno alla terra bagnata, ed al gusto si percepisce netta l'acidità, anche volatile, per quel tanto che è giusto da rendere il vino di estrema bevibilità


La gamma completa di Cantina Giardino, da scoprire
A rendere questo vino unico è la sua persistenza, che tradotto dai termini didattici significa il lungo sapore che ne resta in bocca dopo la deglutizione. Quel sapore che sa evolvere sorso dopo sorso, facendo trapelare mille note colorate dalla sua esuberante freschezza. Il passaggio parziale in piccole botti castagno è un tocco di classe che dona a questo vino persino una certa importanza. Da bere ogni volta che si vuole, spettacolare a tavola con i primi saporiti come un ragù bianco con funghi, tanto per dirne uno. Provatelo, se ne rimarrete affascinati non potrete far altro che addentrarvi nel mondo di Cantina Giardino, probabilmente innamorandovene.




Cantina Giardino s.r.l.
via Petrara n. 21/B
83031 Ariano Irpino (AV)

lunedì 10 novembre 2014

Beaune Les Mariages 2008 - Rossignol Trapet

Gira che ti rigira, cerco un rosso che mi rassicuri e mi viene in mente che l'unica cosa che può svolgere il compito senza troppi pensieri, è un Borgogna. Rosso, pinot nero, non particolarmente invecchiato. Qualcosa che possa soddisfare la voglia di bere apprezzandone le sue qualità date da un territorio che di per se dona al vino qualcosa di profondamente magico. Fortunatamente ho una bottiglia che è la risposta; il Beaune Les Mariages di Rossignol-Trapet, annata 2008.



Beaune è una denominazione che deriva dalla cittadina vinicola più grande della Borgogna, ed al suo interno si possono trovare parecchi cru e tante etichette diverse, avendo la più estesa quantità di vigne regionali. Tra le svariate parcelle di vigne non elevate a cru, c'è Les Mariages, situata a sud di Beaune e confinante con il Premier Cru di Greves. E' un territorio ciottoloso e limoso che permette agli acini di raggiungere una veloce maturità e di far nascere vini dal buon frutto, maturi, equilibrati, da bere entro cinque anni dall'imbottigliamento.

La cantina che in questo caso ha imbottigliato il vino tratto dalle uve di questa parcella è Rossignol-Trapet nata nel 1990 ma con alle spalle una centennale storia familiare legata al vino. Biodinamici certificati Demeter, i Rossignol-Trapet vinificano col minimo impatto umano e lasciano il vino esprimere la stagione e la territorialità, concetto che in Borgogna assume una dimensione elevatissimi. Ogni vino, anche da parcelle di vigne confinanti, parla per se e si distingue dal suo vicino, mantenendo quel fil rouge che per chi ama la Borgogna è inequivocabile.

Parlare di questo Mariages del 2008, bevuto probabilmente al suo apice, quasi non gli rende giustizia. Terroso e fruttato, cupo e gioioso, grasso ma fluido, è un vino che riesce a combinare tutti elementi apparentemente opposti con incredibile spontaneità. Mineralità presente con la consueta eleganza borgognona, il tratto del passaggio in legno è da manuale perchè accompagna senza arrotondare e prevalere. Potrebbe sembrare banale, anzi probabilmente lo è, ma questo vino è BUONO. 

Accompagnarlo ai pasti è facile perchè le sue mille sfaccettature lo rendono versatile, anche se la mia fissa rimane quella dell'abbinamento col pollame, in particolare il "coq au vin", il pollo brasato al vino che viene dal suo stesso territorio. Cercatelo e godetene tutti. Vi farà star bene e non vi farà pensare. Ogni tanto ci vuole.

venerdì 7 novembre 2014

Sidro e Calvados - Domaine Dupont

La Normandia è una delle poche regioni della Francia dove non si produce vino. Poco male. Su al nord sanno comunque come allietare le giornate riempiendo il bicchiere con ottimi prodotti locali, e se fa troppo freddo per l'uva, sono le mele a fermentare. Ed i risultati si chiamano sidro e calvados, orgoglio di queste lande "alla fine della terra". 

Il Domaine Dupont
Recentemente ho avuto modo di apprezzare i prodotti del Domaine Dupont, un' azienda familiare nel cuore del Pays d'Auge che ha tradizione centennale nel campo agricolo e che da circa 25 anni ha puntato tutto sulla qualità, distinguendosi dalla produzione standard regionale. Basti dire che da Dupont si producono sidri millesimati, riserva e con un'incredibile attenzione alla selezione delle mele. La stessa attenzione e passione si applicano per la produzione di uno dei distillati più sottovalutati del mondo, il Calvados.

 mele Verger, le più utilizzate al domaine
Tra i quattro sidri prodotti, quello di cui voglio parlare è il Cidre Organique, Biologico certificato quindi, che per le mele ha un senso ben più profondo che per l'uva, trattandosi di un frutto la cui produzione massiccia è diffusa in tutto il mondo.
Ma da Dupont non ci si limita ai requisiti richiesti dai dettami bio: questo sidro è rifermentato sui propri lieviti, non vede solfiti e non è filtrato. Un'autentico frutto del territorio quindi, ed il risultato è lì pronto a farsi gustare. Impatto prepotente al naso, tra mela cotta e note zuccherine, quasi esotiche.
i quattro sidri prodotti da Dupont
Al palato è l'acidità a farsi largo, facendo da base ad una complessità che si giostrà tra equilibrata nota carbonica e sfondo amarognolo. Incredibile piacevolezza, placa la sete ed accompagna ogni momento della giornata, compresi i pasti. Su tutti, consiglio abbinamento a formaggi a pasta molle ma dal sapore forte, tipici del nord della Francia.

Passando invece al Calvados, tra la vasta gamma prodotta, parlo qui dell'Hors d'Age, ossia invecchiato minimo 6 anni ed in questo caso in barrique nuove per il 25%. Ovviamente questo Calvados non raggiunge le impressionanti ed impegnative complessità di altri lungamente affinati o dei grandi millesimati (ce ne sono di oltre 40 anni ed il millesimato più antico risale al 1969) ma è un ottimo modo per approcciarsi al distillato potendone apprezzare il gusto ed oltrepassando la semplicità dei prodotti di base. Distillato doppiamente, prima arriva a 30% di alcool per ottenere quella che viene chiamata "petite eau", e poi aumenta il suo grado alcolico diventando Calvados vero e proprio, è elegante e raffinato, si distingue per i suoi aromi netti di frutta e fiori e per il suo bilanciamento tra alcolicità e tendenza dolce. Aumenta di spessore con la permanenza nel bicchiere e senza dubbio sarà capace di stupire se conservato negli anni. Dopo cena è assolutamente perfetto, e saprà conquistare anche chi rifiuta i distillati a prescindere. Irrinunciabile una volta provato.

I prodotti di Dupont sono abbastanza ben distribuiti in Italia ed i bravi enotecari non se li lasciano sfuggire, anche se il Calvados ha un mercato più facile del sidro, che però ovviamente ha costi molto più contenuti (circa 10 euro per la bottiglia da 0.75). Da cercare per esperienze diverse che potrebbero diventare piacevoli abitudini. 

martedì 4 novembre 2014

Ferrando - Quarticello

Al di là di quello che pontificano negli ambienti convenzionali e stantii del vino, dai degustatori professionisti ai blogger ammanicati, da quelli che "io solo champagne" a quelli che "io il prosecco solo all'aperitivo", è innegabile dire che alcune tipologie di vino sono state salvate da una monotonia triste grazie al ritorno della produzione di frizzanti "sur lie". Rifermentando in bottiglia sui propri lieviti e senza sboccatura, la classica "bollicina" si riprende tutto ciò che le è stato tolto da decenni di autoclave e imbottigliamenti seriali per brindisi anonimi. Allora niente più esuberanza di spumeggiamenti forzati in stile gazosa, niente più profumi sparati rassicuranti, niente più effetto gomma americana. I frizzanti sui lieviti non sono niente di tutto questo. Sono arcigni, frizzano poco e non sprigionano bouquet maestosi. Ma hanno un pregio che nessun wine-snob potrà mai negare: si fanno bere con estrema facilità.

E' logico che, come per tutte le tipologie, non sempre i "sur lie" sono ben fatti. Il rischio moda è dietro l'angolo ed allora bisogna stare attenti a non buttare tutto dentro al calderone. Fare un vino del genere sembra semplice, ma non lo è: ci vuole attenzione in vigna ed in cantina, i terreni devono essere sani e non contaminati, in cantina guai ad introdurre troppi strumenti esterni. Il segreto di questi vini è il saper trovare il giusto equilibrio tra tempi di raccolta e tempi di affinamento e la loro forza, mai come in questo caso, è la naturalità.

Per questo affidarsi a cantine che già da un pò hanno rilanciato questo metodo antico è sempre una garanzia. Ce ne sono tante fortunatamente e ne parlerò in altri post, ma in questo voglio dare il giusto merito ad un vino che mi è piaciuto particolarmente e ad una cantina che non delude mai: il Ferrando di Quarticello.




I vini di Roberto Maestri, patron dell'azienda agricola situata a Montecchio, provincia di Reggio Emilia, puntano decisamente alla piacevolezza del sorso. La sua malvasia frizzante Despina è un vino che è impossibile da non finire in pochi minuti. Ma quello che più impressiona è la personalità e il gusto dei suoi vini fatti col vitigno principe di questa zona storica di frizzanti: il lambrusco.

Declinato in differenti modi, a volte affiancato dal suo partner dimenticato, il malbo gentile, nel caso del Ferrando la macerazione è breve ed il risultato è un lambrusco (salamino) rosato e meno tannico del solito. Una bevuta che coniuga il rustico all'eleganza, sfruttando un itinerario gusto-olfattivo che parte dalla freschezza e dalla semplicità del profumo dell'uva fino ad una profondità tutta in evoluzione dentro la bottiglia che conserva i propri lieviti, facendo si che il vino cresca e cambi nel tempo. L'assenza di filtrazione ed il quasi nullo utilizzo di anidride solforosa lo rendono schietto e fruibile ad ogni occasione, Abbinabile dall'antipasto di affettati a paste al forno, passando per secondi leggeri o da bere da solo per ingannare l'attesa stuzzicando qua e là. 

Non mortificatelo in una flute, utilizzate un normale calice, perchè no anche un bel bicchierozzo da osteria. Sono vini del popolo che male si trovano in ambienti patinati. Per questo hanno grande dignità. come questo Ferrando. Rosa ed elegante ma sempre capace di dire la sua.


domenica 26 ottobre 2014

Sol 2010 - Castel Noarna

Uno dice Trentino e in automatico si pensa alle montagne ed ai paesini pittoreschi che ci nascono attorno. Freddo, neve, baite. Invece finchè non ci vai, in Trentino, non ti rendi veramente conto della diversità dei suoi paesaggi. Ci sono anche dei posti obiettivamente brutti in Trentino. Esci dall'autostrada a Rovereto Nord ad esempio, e ciò che si presenta davanti agli occhi non è esattamente incontaminato: zone industriali, fabbriche, ipermercati, stazioni di servizio ed un centro paese caotico e trafficato. Montagne in lontananza, ma nell'aria un caldo umido che quasi Roma sembra a due passi.

Fortunatamente a due passi c'è qualcosa di completamente diverso, oltre alla mezz'ora di curve in salita ripida per arrivare all'Altipiano di Folgaria ed i suoi mille e passa metri di spettacolo montanaro. Basta infatti uscire leggermente fuori dal centro abitato per scoprire i vigneti della Vallagarina, il regno del Marzemino e un habitat dove cresce bene quasi ogni vitigno, dai bianchi aromatici fino al Pinot Nero (è qui Elisabetta Dalzocchio ne produce una delle migliori versioni italiane), Ed è qui che, in leggera collina, sorge un suggestivo castello dove è sita una delle cantine più interessanti della regione. 

Si chiama Castel Noarna ed oltre ad essere un posto bellissimo è anche un luogo dove si producono vini trentini classici ma di grande personalità. Fa parte del progetto I Dolomitici 
messo in piedi da un gruppo di bravi vignaioli,grazie ai quale trovare un vino del Trentino che non sappia di industria è ora possibile. Ed a Castel Noarna la strada verso un gusto genuino è seguita da anni, e nel tempo i loro vini sono sempre meno patinati e sempre più veri. La loro Nosiola in purezza ad esempio è l'archetipo del vino tradizionale da tutti i giorni da bere senza stancarsi mai, ad un prezzo irrisorio. Ma il vino di cui voglio parlare oggi è un altro: il Sol, da Sauvignon Blanc in purezza.



La bottiglia da me aperta è una delle 1200 bottiglie prodotte nel 2010, la sua prima annata. E' un Sauvignon di classe, che riesce a colpire togliendo anzichè aggiungendo. Questo infatti è un Sauvignon senza eccessiva spinta aromatica, senza esuberanza, senza sfacciata morbidezza. Tutto ciò nonostante la permanenza in barrique prima dell'imbottigliamento. Com'è possibile allora, ma la barrique non è il male assoluto per la naturalità del vino? No, se le uve sono sane, se come in questo caso si fanno forti dei loro trent'anni di vigna, dell'assenza di filtrazione e di lieviti selezionati. Ecco allora la prevalenza della frutta bianca sul classico vegetale del Sauvignon, del balsamico, del minerale. E di una sensazione di "bontà" che ricorda l'eleganza dei migliori Sauvignon del Sancerre ma con un tocco distintivo di montagna. Dolomitico appunto.

Il Sol è un vino importante (18 euro in cantna) ma non è pesante. Si fa bere facilmente pur non facendo passare inosservata la sua caratura. E fa presagire una lunga vita per chi sa aspettare.

mercoledì 22 ottobre 2014

Hommage à Robert - Gilles Azzoni

Di alcuni vini riesco difficilmente a fare a meno. Magari non ce n'è sempre una bottiglia in casa, ma quando capito in enoteca e ne vedo una, ci giro intorno, rifletto che forse vorrei provare qualcosa di nuovo, ed alla fine, nove volte su dieci, vado a finire là. Una sorta di dipendenza che fortunatamente mi accade con vini dal prezzo contenuto, quelli da godersi tutti e subito, senza stare a pensare troppo all'abbinamento col cibo. Ed il vino per il quale recentemente posso dichiarami "addicted" è questo rosso dell'Ardeche (Loira) del quale fortunatamente il mio amico Antonio ha sempre una discreta scorta nella sua enoteca.

Il vino si chiama Hommage à Robert e lo fa un vignaiolo di nome Gilles Azzoni la cui cantina ha il poetico nome di Le Raisin et L'Ange (l'acino e l'angelo). Gilles è in effetti un pò poeta nel descrivere il suo mondo "Al Mas de Begude (il nome della tenuta) l'acino è il bambino, la vigna è la regina madre ed il vignaiolo è il pastore che l'accompagna". E differenzia in seguito l'accompagnatore dal "trasformatore", definendo il primo come qualcuno che accetta di dare priorità alle circostanze che possono anche modificare quelli che sono i suoi obiettivi di lavoro, mentre il secondo come colui che porterà a termine ciò su cui mette le mani facendone un qualcosa a sua immagine e somiglianza, probabilmente ignorando il contesto in cui si muove. Poche parole ma fondamentali per capire la sua filosofia di lavoro ma direi anche per capire l'abisso che c'è tra i due modi di concepire la produzione di vino attualmente: quella artigianale e quella industriale.

Gilles Azzoni nelle sue cantine semi-interrate 
Nelle sue cantine semi-interrate dove la temperatura non è regolata, Gillez Azzoni trasferisce le uve raccolte a mano e pestate con i piedi, per i suoi vini, ed i rossi sono a prevalenza Syrah. Nel Fable, il rosso più potente, è coadiuvato solo da circa il 20% di Grenache, mentre nell'Hommage al 50% circa di Syrah si uniscono in egual misura Grenache, Merlot e Cabernet Sauvignon. 

E' un vino apparentemente semplice, "de soif" (da sete) come dicono in Francia ma capace di tirare fuori tutta la sua personalità sorso dopo sorso, tra spezie, frutta, leggerezza e spensieratezza. Lascia in bocca sapore buonissimo di uva spremuta, richiama il secondo bicchiere e di sicuro la bottiglia sarà finita in pochissimo tempo. Non dovrei specificarlo nemmeno, ma si tratta di un vino senza alcun tipo di additivo, nè lieviti nè solforosa aggiunta. Affinato in acciaio, può essere tenuto anche un paio d'anni in bottiglia ma perchè farsi del male? certi vini vanno goduti giovani. Esce dalla cantina a circa 7 euro, quindi anche con il trasporto ed il ricarico non sarà di certo una spesa folle. 

Qui il blog di Gilles Azzoni.

lunedì 20 ottobre 2014

Il Rosso di Rabasco in Bag in Box

Senza troppi giri di parole, non facciamo finta di niente: quando bisogna offrire vino a tanta gente, molti dei quali non badano troppo a cosa effettivamente finirà nel bicchiere, vengono le paranoie ad avvicinarsi alla propria scorta personale, piccola o grande che sia. Non per snobismo ma perchè stappare bottiglie non necessariamente care ma magari agognate, ricercate, volute e finalmente trovate per una platea che non l'apprezza sa un pò di spreco. E sprecare di questi tempi non è proprio consigliabile.

L'occasione delicata si è presentata pochi giorni fa, per un festeggiamento con numerosi invitati che giustamente si aspettavano da bere. E se evitare le bottiglie del cuore è il primo passo, il secondo è quello più difficile: trovare un vino che vada bene ma che allo stesso tempo non sia la solita dama industriale non identificata, capace solo ed esclusivamente di riempire la pancia di alcool e la testa di solforosa. Insomma, la missione era trovare un vino che avesse incontrato il mio gusto ed il mio approccio etico alle necessità quantitative ed economiche che una festa impone.


Difficile? Pensavo di si, invece grazie a varie segnalazioni di amici enotecari, ho scoperto che più di una cantina che apprezzo produce sfuso o bag-in-box di vino base che non viene commercializzato in bottiglia. E dal panorama più ampio del previsto ho selezionato un rosso che pensavo potesse star bene con la canonica brace: il Montepulciano d'Abruzzo di Rabasco, in bag in box da 5 litri a circa 15 euro.

Rabasco è una piccolissima realtà artigianale in quel di Pianella, in provincia di Pescara, ed il loro Montepulciano imbottigliato, sia rosso che rosato, rappresenta al massimo la territorialità e l'asprezza delle vigne abruzzesi, con tanta personalità nonostante la scelta, in parte forzata dalle solite leggi assurde, di non entrare in nessuna denominazione. La versione "festaiola", che in realtà può essere adattata tranquillamente all'utilizzo quotidiano, del loro rosso da Montepulciano svolge la sua funzione in maniera egregia. La beva irrefrenabile e piacevolissima sembra renderlo un vino da zero pretese invece la sua spiccata progressione olfattiva, dalla frutta fresca al sottobosco arrivando persino a note selvatiche, e la sua profondità di sapori, con inaspettata sapidità, ne fa un perfetto compagno per svariati pasti. Rustico e contadino nelle migliori accezioni di questi termini, questo rosso, come tutti i vini di Rabasco, non ha solfiti aggiunti ed è vinificato con i propri lieviti.

Naturalità e gusto si abbracciano e fanno abbracciare tutti i festaioli, molti dei quali mi hanno fatto notare come anche il classico bicchiere di troppo che quando si brinda ci sta eccome, non gli abbia dato per niente alla testa. E 5 litri finiscono molto molto ma in fretta.....

giovedì 16 ottobre 2014

Charmille Blanc 2012 - Domaine de Malavieille

Charmille Blanc 2012 - Domaine de Malavieille

In nessuna cosa come nel vino la tipologia che preferisco varia così spesso. E nei miei gusti ondivaghi ed umorali ultimamente trovano poco spazio i vini bianchi “da tutti i giorni”. Al contrario di quello che avviene con i rossi, per i quali faccio molta fatica ad aver voglia di bere una bottiglia importante, tendo invece a stancarmi presto del bianco che non abbia quel bagaglio di importanza derivato da territorio e blasone. Può sembrare un discorso snob ma invece è tutto il contrario: ho come l’impressione che certi bianchi facili vogliano troppo spesso sembrare quello che non sono, trovare quella profondità e quella muscolarità non supportate dal giusto corpo, a scapito di piacevolezza e facilità di beva.



Eppure la mia indole mi porta a cercare quei bianchi, anche perché un bianco senza pretese ma ben fatto è quello che più amo abbinare ai pasti e che più mi mette di buon umore. E allora nelle mie ricerche, tra parecchi risultati deludenti, è finalmente arrivata una bottiglia che mi ha fatto chiudere il pranzo col sorriso: lo Charmille Blanc del Domaine de Malavieille.


Lo so, siamo di nuovo in Francia. Non me ne vogliate se i vini di cui parlo con entusiasmo sono quasi sempre francesi. Non che io mi senta in colpa per questo, tanto meno penso che non esistano vini italiani buoni. Se mi sento di chiedere scusa è perché la reperibilità di molti di questi vini è scarsa o assente fuori dalla Francia, anche se è pur vero che oggi con Internet tutto è acquistabile ovunque. Ma arriviamo al protagonista della questione, il vino appunto. Lo Charmille è uno dei bianchi base del Domaine de Malavieille, cantina situata nell’Herault, zona nobile del meridione francese, resa nota soprattutto dal Domaine de Mas Gassac. Come da tradizione per una zona che prende un po’ dalla Provenza, un po’ dalla confinante Spagna e un po’ dai non lontani Rodano e Bordelais, qui i bianchi si vinificano spesso in uvaggio, e dentro si trova un mix delle regione citate: Sauvignon, Vermentino, Chardonnay, Viognier, Carignan Blanc e l’autoctono Terret Bourret. Inevitabili i profumi varietali dei semiaromatici, ben presente la nota minerale così come la freschezza. Ciò che impressiona è la capacità di non stancare, da appena aperto fino all’ultimo. Non è poderoso (ci mancherebbe) ma pur nella sua pulizia non è il classico vino precisino da aperitivo a bordo piscina. Eppure potrebbe piacere anche a chi lo vuole usare in quel modo. Per non parlare di chi vuole abbinarlo a frutti di mare e primi di pesce delicati.




Da vigneti biodinamici, produzione 18/35 hl per ettaro, utilizzo di lieviti esclusivamente autoctoni, vinificazione classica in bianco. Prezzo straordinario per chi ha la possibilità di farselo spedire: meno di 6 euro a bottiglia. Da tenerne casse in cantina così da aprirne uno ad ogni evenienza.