venerdì 6 gennaio 2012

Nossiter, anch'io dico la mia


Non ce la faccio, non posso non dire anch’io la mia sull’articolo di Jonathan Nossiter pubblicato su GQ. Ma cominciamo dall’inizio perché troppe cose sono state date per scontate. Innanzitutto, la premessa obbligatoria: Jonathan Nossiter è un regista americano che gli appassionati di vino conoscono quanto (forse meglio) degli appassionati di cinema. La ragione è un suo film-documentario di grande successo chiamato “Mondovino” seguito a qualche anno di distanza dal libro “Le Vie del Vino”, due opere con un chiaro argomento affrontato con un approccio che qualcuno ha definito “No Global”, qualcun altro “sovversivo”, altri addirittura lo hanno considerato politicizzato ed anti-establishment. In realtà sia nel film che nel libro Nossiter sottolineava le differenze tra l’azienda enologica dominante nel mondo, quella fondata su cantine da milioni di bottiglie e vini allineati al gusto imposto dal mercato, e tra i pochi vignaioli che cercano di lavorare per fare vini che rispecchino il territorio da cui provengono, cercando di stare lontano da consulenti enologici, mode commerciali e quant’altro possa costituire una manipolazione della naturalità di un prodotto della terra come il vino. Senza dubbio Nossiter mostra un interesse ed una simpatia maggiore per questi ultimi, un sentimento che probabilmente ogni vero appassionato di vino ed ogni persona dotata di una minima eticità non può che condividere.

Nossiter, giramondo da sempre, figlio di giornalista e marito di un’artista brasiliana, vive a Roma da un po’, ed in questi giorni un suo articolo sulla rivista GQ ha fatto scoppiare la bomba nel mondo della ristorazione romana e nell’industria vinicola italiana tutta. Articolo nel quale il regista è ben più diretto che nelle opere precedentemente citate nell’accusare il mondo dei vini industriali  e la triste situazione delle liste dei vini dei ristoranti romani, banali, piene di grandi nomi e con ricarichi spesso esagerati. Vengono fatti anche i nomi, sia dei ristoranti (nello specifico finiscono sotto accusa “Felice a Testaccio”, “Il Convivio” e “Il Sanlorenzo” ma anche le parole virgolettate del sommelier de “La Pergola” non fanno fare bella figura al ristorante pluristellato di Heinz Beck) e le cantine, tra cui le ovvie Antinori, Zonin, Frescobaldi ma anche Gaja e soprattutto Casale del Giglio, sulla quale ci si sofferma più a lungo grazie anche al contributo “velenoso” di Francesco Romanazzi, sommelier dell’Enoteca Bulzoni che definisce la cantina dell’agro pontino “un tradimento, che fa vini ruffiani, tecnici ed industriali provenienti dal posto meno vocato al mondo”. Quest’articolo ha scatenato il pandemonio sui blog dedicati al vino, con tanto di risposte più o meno piccate dei diretti interessati e chiamati in causa. Sono intervenuto anch’io nel mio piccolo ma sento il bisogno di esprimersi in maniera più esaustiva sull’argomento.

Non voglio fare l’equilibrato e non ci girerò intorno:io penso che i vini naturali siano la migliore espressione del vino da un po’ di anni a questa parte e senza dubbio è da quel gruppo, sempre più folto, che in questo momento provengono le eccellenze mondiali. Questa considerazione va al di là dei vari gruppi, delle certificazioni, delle fazioni interne e della pubblicità che alcuni produttori sanno farsi. Nel gruppo da me considerato ci sono produttori che non hanno mai partecipato a nessuna fiera di settore, nemmeno quelle di nicchia e che non gliene frega niente di prendere la certificazione bio, logico o dinamico che sia. Però sono vignaioli seri che non utilizzano sostanze tossiche e lieviti selezionati per pompare i loro vini ed imbottigliano dopo duro lavoro in vigna, trasferendone lo spirito in bottiglia. Ovvio, non tutti sono buoni, in molti confondono la naturalità con la magia e credono che basti non usare fertilizzanti per avere grandi risultati. Ma la media è molto alta e pian piano sempre più consumatori se ne stanno accorgendo. Quindi quando mi dichiaro vicino alle posizioni di Nossiter non lo dico per ideologia o per salutismo ma soprattutto perché penso che i vini di quei vignaioli siano quasi sempre più buoni, più interessanti, più emozionanti. Anch’io quando mi sono avvicinato al mondo del vino bevevo Casale del Giglio, ero affascinato da Gaja e non schifavo certi vini di Antinori. Poi però si cresce e si dovrebbe capire, sviluppando un gusto e rendendosi conto delle differenze, saper assaporare gusti nuovi, mettere in parallelo i diversi terroir. Purtroppo la realtà è che questo percorso viene fatto da ben pochi conoscitori di vino, e di conseguenza da quasi nessun consumatore casuale. E quando si sta un po’ in enoteca (a me capita spesso, non solo per comprare ma anche perché ho parecchi amici enotecari) succede che magari il proprietario ha fatto una ricerca minuziosa di etichette ma entra il cliente che ti chiede i soliti grandi nomi. Allora diventa difficile, anzi diventa quasi una missione pioneristica imporre al mercato le alternative, perché per i vari Maule, Pepe, Roddolo, Porta del Vento, Del Prete, Haderburg, Occhipinti, Amerighi, Terpin, Picariello e tanti altri è una lotta impari a livello di comunicazione, marketing e diffusione dei prodotti se ogni canale convenzionale incensa regolarmente chi ha un impero da milioni di bottiglie. Qualcuno è riuscito con successo a sfidare questa legge, l’Enoteca Bulzoni su tutti, che ha però da parte sua una storia ed una posizione (i Parioli) che gli facilitano la strada. Ma la loro ampia gamma di vini naturali e di piccoli produttori, la loro continua ricerca ed i loro prezzi più che onesti è così lodevole che è quasi commovente nell’ambito dell’arido panorama romano. Impossibile non citare Les Vignerons a Via dell’Acqua Bullicante, Off License a Via Veio e Altobelli a Via Furio Camillo, piccoli avamposti dell’artigianato vinicolo portati avanti con passione ed ostinazione.

Di certo nel mondo della ristorazione le cose vanno sicuramente peggio. Mangiare fuori a Roma è ormai più un pensiero che un piacere, quasi impossibile che vada tutto bene: servizio pessimo, ambiente rumoroso, piatti deludenti, conto troppo salato…uno di questi aspetti si verificherà nella maggior parte dei casi ed una volta fuori dal locale si avrà spesso la sensazione che rimanere a casa sarebbe stata una scelta migliore. Ma a questi aspetti si aggiunge quello fondamentale per le argomentazioni di Nossiter, vale a dire la lista dei vini. L’argomento lo avevo affrontato anch’io qualche post fa e che la situazione da quel punto di vista sia infinitamente triste è purtroppo storia vecchia. Dell’articolo ha fatto molto scalpore e creato discussione la parte sui ricarichi, ed anche se qualche esempio riportato era al limite estremo (il Petrus a 6480 euro) c’erano cose di cui i ristoratori in questione dovrebbero vergognarsi e chiedere umilmente scusa, come il Trebbiano di Pepe (circa 18 euro in enoteca) in lista a 64 euro al Sanlorenzo. Ma la parte più dura e secondo me più preoccupante riguardava l’entità delle liste stesse, banali volumi apparentemente infiniti di etichette stanche e scontate, una sorta di best-of dell’industria enologica, compilate senza un minimo di passione o almeno di lontana idea di offrire qualcosa di diverso al cliente. E’ come trovarsi in una trappola in cui si è costretti a bere Cusumano, Feudi di San Gregorio, Sella & Mosca o Ruffino. Non se ne esce e secondo me c’è un motivo storico: in questo paese non c’è cultura del bere. E’ triste da dire vista l’importanza internazionale dell’Italia in campo vinicolo, ma il dato di fatto è che qui da noi si beve male, distrattamente, a casaccio. Il cliente medio non ha curiosità, si fida cecamente di quei nomi che l’industria e la pubblicità gli propinano e matura una sua convinzione, basata sul nulla, che quelli siano i migliori vini esistenti. E non a caso la maggior parte di quei vini sono fatti per impressionare al primo colpo, vini d’impatto che lasciano la bocca dolce ma che difficilmente si fanno ricordare, quasi mai si segnalano per una loro personalità, raramente emozionano. Ma non se ne esce se non cambia la mentalità, se non si acquisisce un’apertura mentale che faccia in modo che si abbia voglia di abbandonare nozioni standardizzate per scoprire (o meglio Riscoprire) che c’è chi prova ad uscirne. E purtroppo gli interventi contro Nossiter in questi giorni, che non sono mancati, sono stati spesso indice dell’intolleranza a chi solo osa mettere i bastoni fra le ruote ad un sistema apparentemente intoccabile. Ed è incredibile come i paralleli con realtà sociali ben più serie vengano in mente.

Insomma, si, sono d’accordo con Nossiter e credo che il polverone da lui alzato sia di fondamentale importanza per muovere le acque nel mondo del vino italiano. Spero che almeno dopo le sue parole chi già la pensava come lui prenderà un po’ di coraggio e comincerà a far presente a ristoranti ed enoteche che i vini in lista sono tristi e poco interessanti e che se ci fossero più etichette di vignaioli “veri”, si verrebbe più volentieri a mangiare o comprare lì. Spero che i ristoratori e gli enotecari stiano di più a sentire e si ricordino che il cliente non solo va trattato con rispetto ma va incuriosito ed incentivato a provare qualcosa di nuovo. Spero che queste speranze non si infrangano contro il solito cartello del potere.

PS una sola cosa rimprovero a Nossiter: l’avermi costretto a spendere un euro e cinquanta per comprare GQ, rivista patinata che non avrei sfogliato mai nella vita se non avesse contenuto il suo articolo. Vabè, per non farci caso mi berrò un bicchiere di Sassaia…

mercoledì 9 novembre 2011

Vini di Spagna, paella e tortilla: il resoconto


Piccole cose, come sempre, fanno la differenza. Anche se la paella e la tortilla preparate dalla nostra amica Laura non erano propriamente piccole, non solo per la quantità dovuta all’affluenza record (grazie a tutti!) ma soprattutto per il grande lavoro fatto ai fornelli. I vini sono i protagonisti delle nostre serate ma in questo caso lo chapeau alla cuoca è d’obbligo: abbinamenti vincenti come non mai e la serata ha raggiunto livelli di godimento assoluti.

Allora, leccandomi ancora i baffi al solo pensiero, andiamo a rivivere insieme i momenti trascorsi durante questo virtuale viaggio in Spagna attraverso vini che hanno sorpreso e conquistato. Siamo partiti con due bianchi molto diversi e a quanto pare, con mia gioia perché li adoro, molto apprezzati. Il primo è il Rueda Verdejo 2010 di Protos, portabandiera di una zona storica per i bianchi spagnoli, quella Rueda che grazie alla combinazione tra clima continentale, terreno sassoso e caratteristiche organolettiche del vitigno Verdejo, si distingue per la produzione di vini che riescono ad equilibrare eleganza e potenza. La bottiglia in questione è una di quelle che una volta aperta si fa fatica a non finire in breve tempo. Corrispondente a quelle che sono le linee olfattive tipiche del Verdejo, al naso esplodono note di frutta bianca matura, pesca e frutta esotica con un bella scia agrumata con leggeri tocchi di anice. Questa generale piacevolezza ritorna al gusto dove una viva acidità accompagna la parte fruttata fino al finale ammandorlato con tendenza all’amaro, anch’esso caratteristica peculiare del Verdejo. La sua struttura non esagerata ed il suo finale di media durata lo rendono un vino perfetto per accompagnare piatti di pesce o tapas di verdure.
A seguire, siamo passati per una zona che si distingue in tutto e per tutto da quello che l’immaginario collettivo porta a pensare della Spagna: la Galizia, che nel lembo di terra a nordovest del paese, ai piedi dell’Oceano Atlantico, tra correnti fredde e magici panorami di scogliere, produce bianchi con uno dei vitigni più entusiasmanti del panorama internazionale: l’Albarino. La denominazione è Rias Baixas e la cantina in questione è Martin Codax, storico produttore della zona e ad oggi una garanzia di qualità. L’Albarino è un vitigno aromatico la cui esuberanza è però meno sfacciata di altri aromatici come Moscato o Gewurztraminer, in quanto gioca tendenzialmente su note carnose, sicuramente avvolgenti e sensuali ma per vini più “dritti” che rotondi. Non fa eccezione in questa versione, ancora giovane nell’annata 2010 ma già capace di esprimere effluvi di agrumi su importante sfondo erbaceo, traducendosi in un sorso quasi oleoso, grasso, di estrema eleganza, con una sottile nota salina ed un bellissimo finale fruttato. Vino che migliora col passare dei minuti, delle ore e senza dubbio negli anni. L’affinamento in solo acciaio non intacca le magnifiche caratteristiche del vitigno e del suo terroir, anzi ne esalta la struttura e gli aromi. Da accompagnare a risotti, a paste all’uovo con i funghi porcini ma soprattutto al mitico pulpo a la gallega per seguire una tradizione inossidabile della tavola locale.

A questo punto è ora dei rossi, e per il primo della serie abbiamo fatto l’unica deviazione nel sud, in una denominazione poco nota, quella Jumilla che tra le provincia di Murcia ed Albacete ha le sue vigne incastonate in terrazzamenti, quasi a fare da spola tra una montagna ed un’altra. In queste condizioni pedoclimatiche particolari, dove le estati superano i quaranta gradi e le pioggie, seppur rare, sono repentine e violente, si adatta un vitigno dalla scorza dura e dalla polpa soffice che si chiama Monastrell. Poco tannico, scuro e speziato, nel nostro vino, il Luzon 2010 della Finca Luzon è coadiuvato dal 30% di Syrah, con il quale si integra creando un interessante chiaroscuro di sensazioni. Si parte da un olfatto di frutti di bosco maturi per arrivare ad una decisa sterzata alle spezie con pepe nero, liquirizia e cannella. Succoso e potente, con la parte alcolica in leggera evidenza (peccato di gioventù), in bocca scorre con facilità, ammorbidito da tannini setosi e finale molto piacevole. Da primi piatti belli carichi, penso a un ragù ben fatto, un’amatriciana…o per andare su qualcosa di più esotico, perché non un chili con carne?
Il rosso numero due è una scoperta molto interessante, una bottiglia che mi ha entusiasmato perché è uno di quei vini in grado di conquistare con calma, senza giocarsi la carta del “tutto e subito”. Siamo nella classica zona “a scavallo” tra più regione, in quel Bierzo che è al confine tra Castilla, Galizia ed Asturie, con un’azienda a gestione familiare di grande serietà, Castro Ventosa. Qui il vitigno locale è il Mencia, il quale grazie ad una sua ottima struttura ed alla possibilità di sfruttare un territorio ottimo con molti corsi d’acqua, abbondante sole ed aria di alta collina, dà vini eleganti e piacevoli da giovani poi capaci di acquistare in maturità e complessità quando invecchiati. Questo Castro de Valtuille è un 2008 che passa un paio di mesi in legno e quasi due anni in acciaio prima di essere imbottigliato e pur promettendo una lunga vita, già ora regala parecchie emozioni, tra l’altro crescenti nei minuti. Parte infatti con note di frutta acerba e pot-pourri per aprirsi pian piano su sensazioni più mature di mirtillo e ribes, caffè in polvere, olive nere, spezie dolci. Al palato spicca la bella acidità a corroborare un carattere scorbutico ma affascinante, con tratti affumicati, bella avvolgenza al palato e sontuoso finale di frutta rossa. Si esprime con forza ma non fa vedere i muscoli per dare spettacolo, sa essere discreto dicendo però fermamente la sua. Ottimo con tutte le carni, da una fiorentina alla brace in su.
Per concludere in bellezza, obbligatorio passaggio nella più nobile zona del vino spagnolo: la Rioja. Regione capace di affermarsi sul mercato a livello internazionale nonostante uno stile ed una tradizione che non hanno mai portato a vini di facile consumo. Qui infatti è comune far affinare i vini (anche i bianchi!) per lunghissimo tempo prima di essere messi in commercio e questo dovrebbe portare al contatto con un vino maturo, complesso, da capire. Purtroppo il mercato ha tramutato questo concetto in vini muscolosi e pesanti, avvolti esageratamente avvolti nelle note vanigliate di barrique nuove fino a coprire le potenzialità di un vitigno incredibile come il Tempranillo, che nelle sue migliori versioni rivaleggia senza problemi con i grandi vitigni rossi del mondo. Eppure è ancora la Rioja la zona nel quale si esprime al meglio, nonostante i giganteschi miglioramenti di una DO considerata ormai quasi altrettanto nobile, la non lontana Ribera del Duero. La piccola cantina Aribau ci ha garantito con la sua Cuvèe 2002 un espressione del Tempranillo lineare con la sua tipicità e con quella di un territorio protetto dalle intemperie dalla Sierra della Cantabria e con un mix perfetto di argilla e calcare nei suoi terreni. Eleganza, longevità e struttura garantiti quindi, se in vigna ed i cantina si lavora con le giuste intenzioni.  Solo 12 mesi in legno nuovo ed i restanti otto anni tra acciaio e bottiglia, questa Cuvèè ha un naso inevitabilmente intenso, con incredibili note fruttate e si spezie dolci che si avvalgono della leggera smussatura tostata della barrique, non invadente ma presente. Di sicuro è in bocca dove dà il meglio, mostrandosi equilibrato nella sua importante struttura senza mettere in secondo piano l’infinita bevibilità. Certamente orientato verso gusti più solari, impressiona per la maniera di riempire il palato, ammaliando le papille gustative, quasi a voler spingere a berne un altro sorso. Setoso, lungo, sembra chiedere ancora anni per migliorare ulteriormente. Da godere al massimo con arrosti e brasati ma forse ancor di più ad accompagnare dei formaggi stagionati.

Un applauso ai presenti ed un altro ai vini spagnoli per aver dimostrato di esistere oltre i clichet ed averci accompagnato in un’altra bella avventura. Ora vi aspetto il 20 novembre per il prossimo appuntamento, quello di vitigni e terroir a confronto, dove scopriremo come Syrah e Sauvignon Blanc sanno esprimersi in diverse regioni, da quelle francesi di origine a quelle italiche di adozione. E lo faremo alla cieca, senza sapere quale bottiglia è stata versata prima. Da non perdere!

martedì 18 ottobre 2011

Due distillati da abbinare alle sere invernali


L’inverno finalmente lancia i primi segnali e con l’arrivo del freddo, delle pioggie e delle serate buie, ritornano le abitudini alimentari che ci danno quel calore che col finire dell’estate pian piano si smarrisce. Largo allora a ragù e brasati, a preparazioni al forno e a dessert corroboranti. E alla fine di un pasto che ci ricocincilia col buon vivere, perché non salutare il termine della serata con un bel distillato?

Mettiamo le cose in chiaro, i distillati non sono roba da alcolizzati. Per apprezzarli ci vuole più sensibilità gusto-olfattiva di quanto richieda l’assaggio di un vino, perché le sfumature dietro l’inevitabile impatto alcolico sono sottili, timide, spesso difficili da recepire. Dimentichiamoci quelle bottiglie mezze vuote da secoli poggiate dietro i polverosi scaffali dietro al bancone del bar. Con tutto il rispetto, l’arte del distillato è profonda, da scoprire e da rispettare. E le storie tra i vari distillati sono così tante e così diverse tra di loro che quando ci si entra non se ne esce più, travolti dal fascino e dalla tradizione. Io oggi ve ne racconto due che accompagnano spesso i miei momenti tra sera e notte, arrotondando la mia sfera di sapori e di sensazioni.

Il primo è il Bas Armagnac Hors d’Age del Domaine de Laguille. Rispetto al Cognac, al quale è speculare come lavorazione, il Bas Armagnac è più discreto e meno noto. Prodotto nella zona della Gascogna, nel sud-ovest francese, si vanta di essere la pià antica acquavite del mondo. La famiglia Vignoli, proprietaria del Domaine de Laguille, ne rispetta la storia e ne produce varie tipologie, dal più giovane alle riserve quarantennali che toccano anche prezzi spaventosi. L’Hors d’Age è la tipologia che vuole il distillato invecchiato per almeno 15 anni ed il suo costo in enoteca si aggira intorno ai 60 euro. E’ un elisir che mi conquista ad ogni sorso, nella sua veste di un ambrato quasi lucido ci si ritrovano note caramellate, di castagno, di albicocca secca, tocchi di miele, di spezie dolci, di boisèe. Questo incredibile impatto olfattivo, capace di far tirar fuori persino a me una lista del genere, si ritrova all’assaggio in tutto il suo equilibrio e la sua eleganza. Lo chiamano “l’equilibre gascon”, come a vantarsi di una caratteristica che nei vicini più famosi (già, i cognac) non si trova. Complessità di aromi, finale incentrato su ricordi di bosco e di frutta secca, con la parte alcolica ad avvolgere il tutto morbidamente. Questo Bas Armagnac è un fidato alleato per ogni fine cena, dopo il dessert, magari accompagnato da cioccolato al 70% o perché no affiancato ad un  ottima miscela di caffè (gli esperti mi dicono il Kenya, e devo solo fidarmi).

L’altra storia ci porta in Irlanda per un whiskey (la e è d’obbligo quando si whiskeggia nella terra dei leprechauns) che ha parecchio da dire. Si tratta dell’ Irish Whiskey 12 Y.O. della Knappogue Castle. Distilleria di secolare tradizione, la Knappogue Castle ha in realtà appena introdotto sul mercato questo prodotto, a fungere da step introduttivo al prodotto di punta tra i non-vintage della casa, ovvero il 16 Years Old. Al Castello di Knappogue sono noti per uno stile che porta gli whiskey ad essere scorrevoli e setosi, puntando con decisione ad un buon equilibrio delle note maltate, senza mai farle risultare affumicate o coprenti. In questo dodici anni, invecchiato in botti di bourbon, si nota la media intensità dell’ambra al colore e si percepisce subito al naso una delicatezza che richiama a note biscottate, di frutta e di cerali, fino ad una virata verso tratti peposi e speziati che aumentano con il contatto con l’aria. Un olfatto elegante che si trasferisce al palato aggiungendo sensazioni più dolci che ricordano lo zucchero di canna, la vaniglia, i dolci sfornati. Perfetto equilibrio tra le caratteristiche di maturità e spirito gentile che lo rende ideale da bere da solo, dopo cena, magari tra una chiacchiera e l’altra, o ascoltando un disco di Charles Mingus, di Grover Washington Jr. o dei King Crimson.

Insomma, la ricetta per scaldare le serate in arrivo non è unica, anzi ce ne sono tante e sono probabilmente tutte valide. Però io un consiglio spassionato ve lo do: tenete in serbo sempre un buon distillato, da gustare con il consueto equilibrio. Vedrete che anche l’eventuale solitudine non sarà un fardello ma diventerà un momento per godersi la vita. Di questi tempi, ogni tanto, ci vuole.

sabato 8 ottobre 2011

Macon-Cruzilles Manganite 2005 - Domaine Vignes de Maynes


Qualche anno fa ho lavorato per un periodo ad un importante wine bar di Roma, uno di quelli in cui vanno -non solo ma soprattutto- quei personaggi che hanno ogni verità in tasca sul vino e tutto ciò che lo circonda. Quel tipo di personaggi che possono attingere dalle liste de vini spesso permettendosi di spendere cifre che ogni vero appassionato vorrebbe avere a disposizione quando messo al cospetto di una grande cantina. La beffa è che quei soldi sono regolarmente spesi per bottiglie che l'appassionato non ordinerebbe mai. Ma così va il mondo e di scene da mani nei capelli ne ho viste a iosa. Ad esempio una sera entrarono due signore dalla classica aria benestante, le quali, immerse nei loro discorsi di medioalta borghesia, mi chiesero, col classico tono di chi ne sa più di te, la lista dei vini alla mescita. Quando osai proporre loro un Macon bianco descrivendolo come "un Borgogna da scoprire", una delle due candidate al premio nobel della modestia sentenziò con veemenza "Macon non è Borgogna". Ovviamente i miei timidi tentativi di spiegazione, dettati per altro da fatti geograficamente e legislativamente inconfutabili, sono stati cancellati dall’assolutismo della presunta onniscenza con cui ci si scontra in situazioni simili. E’ in momenti come questo che vorresti vivere la scena della coda al cinema di “Io ed Annie” in cui Woody Allen, sfinito dalle logorroiche teorie su Marshall McLuhan del sapientone di turno, fa apparire magicamente il filosofo che smentisce in quattro e quattr’otto l’insopportabile soggetto. Tutto ciò è rimasto nella mia fantasia ma quello che mi consola è che la signora sarà tutt’ora ancorata alle sue convinzioni mentre il sottoscritto (e come me ogni vero appassionato) continua a crescere ponendosi domande. E persino un misfatto del genere mi torna in mente nel momento in cui apro un vino e lo apprezzo. Indovinate che vino? Si, proprio un Macon. Rosso questa volta, ma da scoprire proprio come quel famigerato bianco.

Dire che Macon non è Borgogna è un po’ come dire che la Maremma non è Toscana: sicuramente non siamo nella nobiltà della regione, più a sud della Cote d’Or, dove i vini hanno un carattere diverso, dove lo Chardonnay ed il Pinot Nero non regnano soli ed incontrastati ma fanno timidamente spazio ai fratelli minori Aligotè e Gamay. Scendono i prezzi, scende la gloria, forse scende la capacità media di invecchiamento. Ma da queste parti, se ci si imbatte nella bottiglia di giusta, si può godere spendendo intorno ai 10 euro. Ed è quello che mi è successo con la bottiglia che vi sto per raccontare. La cantina, Domaine du Vignes de Maynes, si vanta di essere la più antica cantina a praticare agricoltura biologica. E’ comunque un domaine familiare ed i suoi vini hanno il carattere sincero della vigna di una volta. Il Macon-Cruzilles Manganite è un Gamay al 100% e nella sua versione 2005 è strepitoso: nelle sue sfumature di un bel rosso intenso si incontrano note terrose e succose, una spremuta di frutta di bosco che accarezza il naso sfumando delicatamente in amarene sotto spirito, in spezie dolciastre, in sprazzi minerali. E’ il preludio ad un sapore pieno che sa trasformarsi nei minuti, con fresca eleganza, misurata morbidezza. Il vino è naturale al 100%, non è filtrato e non ha solforosa aggiunta e, anche se gli scettici stenteranno a crederlo, è di una pulizia gustativa immensa. Durevole dopo il sorso, capace di accompagnarci lungo tutto il pasto senza mai prevaricare preparazioni saporite, persino piccanti. E seppur lontano dai grandi Pinot Neri della Borgogna più importante, questo Macon porta con se quello spirito regionale che lo ricollega ad un territorio unico capace di dare un carattere indimenticabile ai suoi frutti. Può stare in cantina ancora qualche anno e potrà emozionarci ancor di più. Da provare, senza indugi, senza pensieri. E soprattutto, senza la signora del wine-bar.

sabato 1 ottobre 2011

Vini naturali e salumi artigianali - il resoconto


Fatemelo dire, le serate domenicali con buoni vini ed ottima compagnia mi stavano cominciando a mancare. Sarà che nella scorsa stagione si era formato un bel gruppo, sarà che lo stesso gruppo si continua man mano ad ampliare, sarà che ogni bottiglia stappata e condivisa è sempre una bella esperienza ma insomma dopo oltre due mesi dall’ultima occasione, questa prima serata del 2011-2012 me la sono goduta forse più di ogni altra. La speranza è che nelle prossime si possa stare ancora meglio e che il gruppo, che ringrazio per la costanza, si allarghi sempre di più.

Abbiamo ricominciato con un abbinamento cibo-vino, non esclusivamente dal punto di vista tecnico perché mangiare e bere con uno schema in mano è quanto meno poco realistico. Senza nulla togliere agli incroci tra caratteristiche organolettiche, ciò che più mi interessa è l’idea di abbinamento intesa come viatico al godimento gustativo, magari con un tocco di irrazionalità, un filo di tradizione, una manciata di azzardo. D’altronde chi si è imparato a conoscermi sa ormai bene che il senso delle mie scelte tende a dare luce a produttori controversi, originali ed a volte anarchici. Magari i loro vini possono lasciare perplessi in qualche caso ma di sicuro non lasciano indifferenti. Quest’anno ancor di più questo tipo di approccio sarà il comun denominaotre delle nostre serate. E per la prima, l’abbinamento è stato tra vini naturali e salumi artigianali, due mondi che a livello alimentare probabilmente dovrebbero essere la normalità, invece, nonostante molti sforzi da parte di qualche viticultore ed allevatore, sono ancora l’eccezione, laddove la regola è il sottostare all’industria alimentare degli allevamenti intensivi, degli erbicidi in vigna e del gusto standardizzato. Vediamo allora come questi vini che rispettano la natura e la salute dell’uomo hanno saputo affiancarsi al sapore indimenticabile dei salumi artigianali regionali selezionati presso DOL, bottega di Centocelle grazie alla quale è possibile portare sulle nostre tavole (senza spese folli) prodotti riscoperti della nostra terra.

1)      Lardo di San Nicola con Crémant de Loire – Chateau Pierre Bise

Molti non hanno il palato pronto a tutto e non mangiano il lardo, troppo viscido, troppo grasso, troppo esagerato. Dopo aver assaggiato il lardo di San Nicola, stagionato ed aromatizzato in provincia di Latina da pochissimi allevatori, anche i più scettici si sono ricreduti. Delicato e saporito, si mangia senza problemi anche da solo, risultando di una consistenza perfetta. Accompagnato al pane o alla pizza ovviamente prende sostanza e diventa un amuse-bouche quasi di lusso se abbinato al Crémant de Loire di Pierre Bise, un metodo classico da Chenin Blanc che, come in tutti i vini del geniale produttore di Savennieres, esprime al massimo le potenzialità infinite di questo vitigno, dando vita ad un insieme di freschezza, mineralità, complessita e generale gradevolezza. E’ uno spumante che non ha nulla da invidiare a qualche bollicina altisonante dal prezzo molto più elevato.

2)      Prosciutto di Campo Catino con Sassaia 2009 – La Biancara di Angiolino Maule

Una triste storia quella dei nostri prosciutti, confinati in anonimi banconi e marchiati chissà dove a tradire un’origine di cui non si hanno praticamente garanzie. Maiali che fanno il giro del mondo prima di arrivare a Parma o a Norcia o a San Daniele, venduti a prezzi spesso esosi e la cui qualità è un terno a lotto. E pensare che in tanti angoli d’Italia esistono tradizioni storiche di produzioni di prosciutto, come quella di Campo Catino, nel frusinate, che si distingue dal vicino (ed ottimo) Guarcino per un sapore più dolce e soprattutto perché i migliori sono destinati ad una leggera affumicatura con bacche di ginepro, come nel nostro caso. Un prosciutto che costituisce una portata a se stante ed il cui gusto intenso ma gentile richiama un bianco dalle simili caratteristiche. Il Sassaia di Maule, il guru dei vini naturali in Italia, con la sua leggera maturazione sulle bucce, la rotondità della Garganega ed il carattere del territorio intorno a Gambellara, viene ad hoc. Un vino che non stanca mai e con il quale si può pasteggiare senza sosta. Non ha aggiunta di solforosa quindi anche i rischi di mal di testa sono scongiurati.

3)      Salsiccia di Monte San Biagio con Rosso Frizzante 2009 – La Stoppa

Salame e vino rosso frizzante, d’altronde generazioni di emiliani che hanno bagnato col Lambrusco i loro culatelli e le loro mortadelle non erano degli sprovveduti. Un po’ di carbonica sgrassa la bocca ed il tannino leggero fa il resto, lasciando una sensazione di appagamento che a volte nessun piatto cucinato riesce ad offrire. L’omaggio alla tradizione lo facciamo deviando leggermente di strada, arriviamo nei Colli Piacentini, dove La Stoppa, azienda biodinamica Triple A, produce ottimi vini locali senza aggiunta di solforosa. Anche in quella zona il rosso frizzante è storico, ottenuto da Bonarda e Barbera, si chiama Gutturnio ma La Stoppa ha deciso da un paio di annate di uscire dalla DOC e chiamarlo semplicemente Rosso Frizzante. Che dire, è un vino dalla bevibilità compulsiva, dal frutto in evidenza corroborato dalla giusta acidità e dalla insospettabile morbidezza. Accompagna egregiamente la salsiccia, il cui sapore, forte ed elegante, carnoso e speziato, è difficile da descrivere a parole. Un’esperienza da fare.

4)      Susaniella con Il Secondo di Pacina 2009 – Pacina

La susaniella è un must, un cavallo di battaglia di DOL, salume stagionato prodotto con varie parti del maiale (interiora incluse) dal gusto intenso e persistente. Non a caso è un presidio Slow Food ed è una rarità che bisognerebbe provare almeno una volta nella vita. Ci abbiamo bevuto un vino contadino nel vero senso della parola, Il Secondo di Pacina, una sorta di Chianti giovane che i Pacina producono a Castelnuovo Berardenga con il 97% di Sangiovese ed una manciata di vitigni classici di supporto. Vigne giovani, regime biodinamico, nel calice si sentono tutte le marce del Sangovese, la terrosità delle sue piante, la spinta complessa dei suoi aromi e la cavalcata gioviale del suo crescere in bottiglia. Un vino da merenda che sa in realtà esprimersi anche su piatti più complessi, riportandoci un po’ indietro nel tempo, a come un Chianti dovrebbe essere sempre.

5)      Ciauscolo stagionato con Elise 2009 – Moulin de Gassac

Abbiamo iniziato dicendo che il lardo non piace a molti, finiamo dicendo che è invece abbastanza difficile trovare chi non gradisce il ciauscolo. Quello spalmabile, marchigiano ma ormai prodotto anche altrove, è diventato oramai un prodotto industriale ed occorre saper fare differenza tra ciauscolo e ciauscolo. Nel viterbese invece si produce il ciauscolo stagionato, il cui gusto ricorda quello del cugino vissano ma la cui consistenza è ben più ferma, da mangiare a morsi assaporandone i tanti strati di sapore. Un salume dalle caratteristiche così intense ci porta a bere l’unico vino della serata che vede un po’ di legno. Si tratta dell’Elise di Moulin de Gassac, prodotto in Languedoc da Aimè Guibert, colui che non si è mai voluto piegare alle grandi multinazionali che insistevano per acquistare i suoi vigneti. La linea “Moulin” indica qui vini che vengono dalle vigne circostanti il “Mas” che dà il suo pregiato rosso di punta. Con Merlot e Syrah in quasi uguale percentuale, il vino riesce nel difficile compito di equilibrare le caratteristiche dei due vitigni, tra femminile fruttosità e sbarazzina speziatura. E’ un vino che fa sapiente uso dei 9 mesi passati in barrique, i quali non snaturano di un minimo la sua genuinità e la sua identità mediterranea. Può crescere per 4-5 anni e si può godere in vari modi, dai salumi fino a delle belle grigliate.

Insomma, abbiamo iniziato alla grande e un abbraccio va a tutti quelli che hanno reso la serata della speciale....ora l'appuntamento è al 30 ottobre con i vini ed i sapori di Spagna, un altro bel viaggio elettrizzante. Vi aspetto!


venerdì 16 settembre 2011

Il tragicomico mondo delle liste dei vini

Avere gusti complicati non aiuta. La delusione è dietro l'angolo, le aspettative non sono quasi mai attese, si fatica ad essere veramente soddisfatti. Anche perchè quando per indole sei uno a cui piace fare un minimo di ricerca e guardare oltre le proposte facili e senza rischio, è naturale chiedersi "perchè accontentarsi?". Questa filosofia si va ad applicare brutalmente su quasi ogni campo della propria vita e non si riesce a fare altrimenti. Ma se è in qualche modo possibile ascoltare musica più profonda di Lady Gaga, vedere un film degno della parola “cinema” invece che uno di Muccino o essere attratti più dalle qualità mentali che da quelle fisiche, c'è una strada senza uscita a cui i propri gusti non possono trovare scorciatoie: l'essere sottoposti ad una lista di vini in cui non c'è nulla che stimola il proprio interesse.

Probabilmente i ristoratori odiano i foodies ed i gastronauti, terminologie peraltro fastidiose create da furbogiornalisti, ma dovrebbero anche saper guardare oltre certe saccenze da snob e prendere come incentivo per migliorarsi la massiccia presenza di persone attente al loro operato. E se, in tutta onestà, molto si è mosso nell'offerta dei piatti, il mondo del vino nei ristoranti (e ancor peggio, nei cosiddetti wine-bar!) vive nella banalità quasi assoluta. Un pacchetto di difetti spesso confezionato nella temibile lista che, come il peggiore dei regali sgraditi, è invitante e bella quando è chiusa per poi deludere quando "scartata". Per cercare di andare a fondo al problema, mi sono divertito a stilare una sorta di "lista delle liste", differenziandole per tipologia e per forma. Sono sicuro che molti tra i lettori attenti a questo argomento ne avranno altre da aggiungere.

1) La lista "come da manuale" : è quel tipo di lista che è una sorta di "greatest hits" dei vari vini bicchierati, stellati, grappolati o qualsiasi altro simbolo di riconoscimento le guide del settore utilizzino per decidere i vini "più buoni". Nel peggiore dei casi (e mi è capitato spesso) sulla stessa lista affianco al vino è persino riportata la votazione che il vino ha ottenuto! a parte il criterio con cui questi vini vengono premiati, sul quale vi rimando alla puntata apposita di Report di qualche stagione fa, c'è da domandarsi quanta personalità una carta del genere possa avere. E' ovvio che nel mucchione potrà capitare qualche buona etichetta ma il tutto sarà sconnesso dall'appartenenza al luogo, all'abbinamento coi piatti del menu e ben lontano dall'idea di proporre una novità. Praticamente una lista fatta da altri che scelgono i vini sul parere di altri ancora. Viva la fantasia.

2) La lista "lounge": è quella che si trova in quei locali dove l'atto del mangiare e bere è secondario a tutto il resto, soprattutto all'apparire. Così gli avventori abituali del luogo lounge, mentre pensano a vedere e a farsi vedere, non si accorgono che stanno bevendo una bottiglia che è in lista a 30 euro e che si trova al supermercato a 5,50. E la cosa sconvolgente è che ne saranno estasiati, ed il giorno dopo chiameranno te, "l'amico che ci capisce", per dirti che hanno bevuto un vino "buonissimo" del quale però non si ricordano il nome. "Mi sembra fosse un vermentino, dove lo posso trovare?". Vabbè. E allora pensi che forse i proprietari lounge fanno bene a sparare 8 euro per una  miniflute di prosecco. Mi chiedo solo perchè il vino debba subire lo sfacelo della nostra società.

3) La lista "stai a guardà er capello": questa è una lista sui generis, che se fossimo nel 1982 farebbe quasi tenerezza ma che nel 2011 fa cascare violentemente le braccia. Di solito non ha una gloria a se, si trova infatti allegata al menu, nelle ultime desolate pagine che evidentemente il ristoratore in questione crede che nessuno andrà a guardare. Normalmente la composizione della lista, divisa in bianchi e rossi, comprende cose tipo Falanghina 12, Trebbiano 12, Chianti 14 e così via. Ovviamente non sarà mai dato sapere annata e produttore, senza nemmeno parlare di informazioni più specifiche. Il cameriere a cui sarà chiesta una qualsiasi domanda la cui eventuale risposta potrebbe aggiungere qualcosa sulla conoscenza di cosa si berrà vi guarderà come se foste un sovversivo che non osa bere il vino della casa. Molto meglio alzarsi, cercare il frigo o lo scaffale dove ci sono le bottiglie e scegliersela da soli. Se siete fortunati qualcuno ve la aprirà. Col botto ovviamente.

4) La lista "enciclopedia": lo dico con fermezza, la prossima volta che mi siedo su un tavolo di un ristorante, magari con la dolce metà in un'occasione particolare ed oltre al menù mi viene schiaffato sul tavolo un tomo di 22kg e 150 pagine corrispondente alla lista dei vini mi alzo e me ne vado. Quelle liste che per leggerle tutte bisognerebbe averle due ore prima di ordinare, spesso scoordinate nelle selezioni e quasi sempre prive di vini sotto i 25 euro, secondo me sono solo un inutile esibizionismo del ristoratore. Ma quest'atto bucolico e poco utile ad una scelta ponderata non ha assolutamente senso se il povero commensale è lasciato al buio, costretto a pescare da solo da un mare di nomi in cinque minuti netti, pensando a prezzo, abbinamento, gusto personale, eccetera eccetera. Come sempre quantità e qualità vanno poco d'accordo

5) La lista "fantasma": ci siamo, finalmente una lista fatta bene, una buona scelta ma non un libro sacro, nomi interessanti, vini a prezzi accessibili ma anche qualche etichetta da grande evento, logica dell'abbinamento, buono spazio ai vini regionali (per inciso, come disse qualcuno, quando si è in vacanza nelle Langhe è un delitto ordinare un Brunello ed aggiungete tutti i viceversa del mondo). In queste poche righe ho descritto quella che secondo me è la lista perfetta. Però la chiamo lista "fantasma" non solo perchè è rara ma soprattutto perchè quando capita una situazione del genere succede spesso che il vino selezionato "è terminato". E l'alternativa "non c'è". Ed il terzo "ritorna la settimana prossima". E non c'è niente di più brutto per un appassionato pregustare la bottiglia bramata e poi rimanere a bocca asciutta. Queste sono il tipo di situazioni che a me rovinano la serata. Colpa dei soliti gusti difficili.

venerdì 26 agosto 2011

Stout d'Irlanda


Anche se a loro non fa molto piacere sentirselo dire, gli irlandesi hanno molto in comune con gli odiati inglesi. Stile di vita, abitudini, tradizioni, il turista distratto potrebbe non accorgersi delle differenze che ci sono tra un villaggio del Sussex e uno della contea di Mayo. Ma a parte il modo di parlare, le scritte in gaelico che imperversano ed un certo orgoglio che affiora tra lentigini e capelli rossi, il vero è unico modo per carpire lo spirito irlandese è uno e sempre uno: entrare in un pub. Perché se i pub inglesi, nonostante la diffusa e bellissima frequentazione socialmente trasversale, hanno un’aria aristocratica, regale, quasi ovattata, nei pub irlandesi c’è aria popolare, gioviale, piuttosto casalinga. In Irlanda non si decide di andare al pub, SI VA al pub. Punto e basta. E’ lì che passano il tempo gli operai dopo il turno, è lì che i pensionati parlano di cosa succede nel mondo e lì che si tracciano gli ultimi movimenti del gossip del vicinato. Tutto questo davanti ad una pinta di stout, l’oro nero che delinea un’altra fondamentale differenza con la terra d’Albione, dove regnano incontrastate le ale, bitter, brown o pale che siano. La stout è l’orgoglio d’Irlanda, perché in tutto il mondo questo piccolo paese ha il suo angolo di popolarità grazie a questa birra particolare, che in Italia non ha mai preso veramente piede e della quale non si conoscono quasi per nulla le tante possibilità di abbinamento gastronomico. E anche se ne esistono diverse etichette e sottotipologie, siamo abituati a bere quasi esclusivamente Guinness (che per altro produce tre tipologie di stout, la Draught, la Foreign Extra e la Extra Stout). Sicuramente il brand dell’arpa ha un certo dominio, in Irlanda come nel mondo, ma passando un po’ di giorni nel paese dei leprechauns si ha abbastanza facilmente la possibilità di provare varie stout irlandesi. Ecco il mio contributo dopo l’esperienza di una bellissima settimana tra le contee di Dublino, Clare, Galway e Mayo. Cheers.

Guinness Draught
Per capire l’importanza storica della Guinness in Irlanda basti dire che il governo negli anni 20, al momento della creazione della Repubblica ha dovuto chiedere loro il permesso per poter utilizzare l’arpa come simbolo nazionale, e cambiarne il verso per non replicare completamente lo stemma della fabbrica di birra di Dublino. La Guinness è un raro esempio di birra industriale (ha fabbriche in tutti i continenti) che ha saputo mantenere quasi intatto il livello di qualità. La Draught è la loro tipologia alla spina, quella che si deve spillare in tre tempi e quella che soffre maledettamente se lo spillatore non è avvezzo alla sua mescita. Poi ci sarebbe il mito che la Guinness cambia al di fuori dell’Irlanda. La realtà è che ancor più delle altre birre alla spina, la Guinness ha bisogno di essere sempre fresca, e quindi un fusto una volta un funzione deve durare il meno possibile per rendere al meglio. Bè, in Irlanda sono entrato in pub di paesini con meno di mille abitanti dove erano presenti                 QUATTRO fusti di Guinness, probabilmente destinati a finire in una sola serata. Quanto può durare un fusto di Guinness in un pub italiano? forse anche una settimana. E la differenza si sentirà, tutta, implacabile.
La Guinness Draught è nera con schiuma cremosa color latte. Al naso ricorda il cioccolato al latte, il malto tostato, un tocco di frutta secca. Ma è al palato che entusiasma, col il suo perfetto bilanciamento tra note dolciamare, la sua morbidezza e il suo sapore inconfondibile che vira dal caffè al pane appena sfornato. Incredibile bevibilità e grandissimo piacere innegabili. La complessità non è il suo punto di forza e tende ad essere una stout “facile” ma è difficile, quasi impossibile, rimettere giù il bicchiere. Da abbinare alla cucina di pesce irlandese, dal salmone all’ “haddock and chips”.

O’Hara Celtic Stout
Se la Guinness è la birra che segna la storia d’Irlanda, la O’Hara della contea di Carlow esiste da appena 15 anni. Dal 96 il birrificio ha fatto passi da gigante, numericamente e qualitativamente, raggiungendo la distribuzione in parecchi paesi con le sue birre di diversa tipologie, incluse ale, weizen e stagionali. La loro Celtic Stout, bevuta in bottiglia da mezzo litro, è nera con sottile top beige e profumo di liquirizia e caffè. Al gusto spicca subito una bella nota affumicata che ritornerà nel finale, intervallata da un forte accento di tostatura. A differenza della Guinness, si percepisce la presenza dell’anidride carbonica ed il corpo è leggermente più robusto, seppur con una scia che vira verso la leggerezza. Una bella stout da abbinare ad un piatto di formaggi importanti.

Porterhouse Oyster Stout
Porterhouse è un piccolo mito per gli amanti della birra artigianale. Nasce come microbirrificio a Dublino e ad oggi possiede ben quattro locali nella capitale irlandese (più uno a Covent Garden) nei quali si producono e si spillano birre realizzate secondo standard qualitativi molto alti, con l’utilizzo di luppoli e lieviti selezionati, senza aggiunte di prodotti industriali. La loro birra più nota è la Oyster Stout, una stout prodotta con  l’aggiunta di ostriche fresche durante la fermentazione. Questo ovviamente contribuisce a dare alla birra un sapore particolare, con una retrogusto abbastanza evidente di sale marino. Nera a sfondo rubino, con un discreto cappello di schiuma tra il bianco e ed il beige, questa stout colpisce il naso con ricordi di brezza marina, di cacao, frutti di bosco e di cenere, per arrivare al palato con sorprendente mineralità in un corpo ben dosato tra importanza e scorrevolezza. Cioccolato fondente, uva passa, note fruttate per una birra che rimane sulle corde dell’amaro senza rimanere monocorde. Di gran lunga la stout con più personalità e dal gusto più particolare, è anche quella che si presta al maggior numero di abbinamenti gastronomici, e che forse in generale si fa più apprezzare quando bevuta a tavola. Matrimonio scontato con le ostriche ma paradossalmente fa la sua figura anche con la carne, specialmente se di manzo e alla griglia.

Murphy’s Irish Stout
Potrà non dire molto fuori dall’Irlanda, ma il marchio Murphy’s nel mondo della birra ha un’importanza ed una storia notevole. Nato 150 anni fa a Cork, il birrificio è oggi il secondo più grande d’Irlanda e la sua birra è diffusa un po’ dappertutto, anche se con una fama offuscata dall’onnipresente Guinness. Un peccato perché la Murphy’s produce un’ottima e classica stout, di colore nero con top beige, un naso che cede molto malto e tendenze tostate, con note affumicate e un nonsochè di caramello. Gusto meno amaro delle altre stout (a tratti ricorda una oatmeal) ma bel corpo e bella cremosità. Si beve con molta faciltà ed alla fine risulta piacevolmente asprigna tra ricordi di caffè e ritorni di tostatura. Consigliata con frutti di mare e piatti saporiti a base di pesce.

Beamish irish Stout
Altro birrificio storico, anch’esso con sede a Cork, Beamish è il marchio che più si associa alla seconda città d’Irlanda, viste le numerose attività sociali e sportive che vengono promosse e sponsorizzate dall’azienda. Questa è una birra che gioca tutte le sue carte sulla piacevolezza del gusto, lasciando all’olfatto soprattutto note di malto tostato e luppolo, con una leggera sensazione di bruciato. In bocca però spicca la personalità, con un amaro ben presente (forse la vera nota che la distingue dalle altre stout commerciali), una schiuma cremosa che si fa quasi gustare col cucchiaino e note di ritorno di cioccolato e liquirizia. Quasi assente l’anidride carbonica. Come tutte le stout irlandesi, è versatile a tavola e si abbina bene ad un bel pasto “da pub” ma forse più delle altre si po’ godere appieno da sola, conversando, senza pensare troppo a ciò che succede fuori.