Non ce la faccio, non posso
non dire anch’io la mia sull’articolo di Jonathan Nossiter pubblicato su GQ. Ma
cominciamo dall’inizio perché troppe cose sono state date per scontate.
Innanzitutto, la premessa obbligatoria: Jonathan Nossiter è un regista
americano che gli appassionati di vino conoscono quanto (forse meglio) degli
appassionati di cinema. La ragione è un suo film-documentario di grande
successo chiamato “Mondovino” seguito a qualche anno di distanza dal libro “Le
Vie del Vino”, due opere con un chiaro argomento affrontato con un approccio
che qualcuno ha definito “No Global”, qualcun altro “sovversivo”, altri
addirittura lo hanno considerato politicizzato ed anti-establishment. In realtà
sia nel film che nel libro Nossiter sottolineava le differenze tra l’azienda
enologica dominante nel mondo, quella fondata su cantine da milioni di
bottiglie e vini allineati al gusto imposto dal mercato, e tra i pochi
vignaioli che cercano di lavorare per fare vini che rispecchino il territorio
da cui provengono, cercando di stare lontano da consulenti enologici, mode
commerciali e quant’altro possa costituire una manipolazione della naturalità
di un prodotto della terra come il vino. Senza dubbio Nossiter mostra un
interesse ed una simpatia maggiore per questi ultimi, un sentimento che
probabilmente ogni vero appassionato di vino ed ogni persona dotata di una
minima eticità non può che condividere.
Nossiter, giramondo da sempre,
figlio di giornalista e marito di un’artista brasiliana, vive a Roma da un po’,
ed in questi giorni un suo articolo sulla rivista GQ ha fatto scoppiare la
bomba nel mondo della ristorazione romana e nell’industria vinicola italiana
tutta. Articolo nel quale il regista è ben più diretto che nelle opere
precedentemente citate nell’accusare il mondo dei vini industriali e la triste situazione delle liste dei vini
dei ristoranti romani, banali, piene di grandi nomi e con ricarichi spesso
esagerati. Vengono fatti anche i nomi, sia dei ristoranti (nello specifico
finiscono sotto accusa “Felice a Testaccio”, “Il Convivio” e “Il Sanlorenzo” ma
anche le parole virgolettate del sommelier de “La Pergola” non fanno fare bella
figura al ristorante pluristellato di Heinz Beck) e le cantine, tra cui le
ovvie Antinori, Zonin, Frescobaldi ma anche Gaja e soprattutto Casale del
Giglio, sulla quale ci si sofferma più a lungo grazie anche al contributo “velenoso”
di Francesco Romanazzi, sommelier dell’Enoteca Bulzoni che definisce la cantina
dell’agro pontino “un tradimento, che fa vini ruffiani, tecnici ed industriali
provenienti dal posto meno vocato al mondo”. Quest’articolo ha scatenato il pandemonio
sui blog dedicati al vino, con tanto di risposte più o meno piccate dei diretti
interessati e chiamati in causa. Sono intervenuto anch’io nel mio piccolo ma
sento il bisogno di esprimersi in maniera più esaustiva sull’argomento.
Non voglio fare l’equilibrato
e non ci girerò intorno:io penso che i vini naturali siano la migliore
espressione del vino da un po’ di anni a questa parte e senza dubbio è da quel
gruppo, sempre più folto, che in questo momento provengono le eccellenze mondiali.
Questa considerazione va al di là dei vari gruppi, delle certificazioni, delle
fazioni interne e della pubblicità che alcuni produttori sanno farsi. Nel
gruppo da me considerato ci sono produttori che non hanno mai partecipato a
nessuna fiera di settore, nemmeno quelle di nicchia e che non gliene frega
niente di prendere la certificazione bio, logico o dinamico che sia. Però sono
vignaioli seri che non utilizzano sostanze tossiche e lieviti selezionati per
pompare i loro vini ed imbottigliano dopo duro lavoro in vigna, trasferendone
lo spirito in bottiglia. Ovvio, non tutti sono buoni, in molti confondono la
naturalità con la magia e credono che basti non usare fertilizzanti per avere
grandi risultati. Ma la media è molto alta e pian piano sempre più consumatori
se ne stanno accorgendo. Quindi quando mi dichiaro vicino alle posizioni di
Nossiter non lo dico per ideologia o per salutismo ma soprattutto perché penso
che i vini di quei vignaioli siano quasi sempre più buoni, più interessanti,
più emozionanti. Anch’io quando mi sono avvicinato al mondo del vino bevevo
Casale del Giglio, ero affascinato da Gaja e non schifavo certi vini di
Antinori. Poi però si cresce e si dovrebbe capire, sviluppando un gusto e
rendendosi conto delle differenze, saper assaporare gusti nuovi, mettere in
parallelo i diversi terroir. Purtroppo la realtà è che questo percorso viene
fatto da ben pochi conoscitori di vino, e di conseguenza da quasi nessun
consumatore casuale. E quando si sta un po’ in enoteca (a me capita spesso, non
solo per comprare ma anche perché ho parecchi amici enotecari) succede che
magari il proprietario ha fatto una ricerca minuziosa di etichette ma entra il
cliente che ti chiede i soliti grandi nomi. Allora diventa difficile, anzi
diventa quasi una missione pioneristica imporre al mercato le alternative, perché
per i vari Maule, Pepe, Roddolo, Porta del Vento, Del Prete, Haderburg,
Occhipinti, Amerighi, Terpin, Picariello e tanti altri è una lotta impari a
livello di comunicazione, marketing e diffusione dei prodotti se ogni canale
convenzionale incensa regolarmente chi ha un impero da milioni di bottiglie.
Qualcuno è riuscito con successo a sfidare questa legge, l’Enoteca Bulzoni su
tutti, che ha però da parte sua una storia ed una posizione (i Parioli) che gli
facilitano la strada. Ma la loro ampia gamma di vini naturali e di piccoli
produttori, la loro continua ricerca ed i loro prezzi più che onesti è così
lodevole che è quasi commovente nell’ambito dell’arido panorama romano.
Impossibile non citare Les Vignerons a Via dell’Acqua Bullicante, Off License a
Via Veio e Altobelli a Via Furio Camillo, piccoli avamposti dell’artigianato
vinicolo portati avanti con passione ed ostinazione.
Di certo nel mondo della
ristorazione le cose vanno sicuramente peggio. Mangiare fuori a Roma è ormai più
un pensiero che un piacere, quasi impossibile che vada tutto bene: servizio
pessimo, ambiente rumoroso, piatti deludenti, conto troppo salato…uno di questi
aspetti si verificherà nella maggior parte dei casi ed una volta fuori dal
locale si avrà spesso la sensazione che rimanere a casa sarebbe stata una
scelta migliore. Ma a questi aspetti si aggiunge quello fondamentale per le
argomentazioni di Nossiter, vale a dire la lista dei vini. L’argomento lo avevo
affrontato anch’io qualche post fa e che la situazione da quel punto di vista
sia infinitamente triste è purtroppo storia vecchia. Dell’articolo ha fatto
molto scalpore e creato discussione la parte sui ricarichi, ed anche se qualche
esempio riportato era al limite estremo (il Petrus a 6480 euro) c’erano cose di
cui i ristoratori in questione dovrebbero vergognarsi e chiedere umilmente
scusa, come il Trebbiano di Pepe (circa 18 euro in enoteca) in lista a 64 euro
al Sanlorenzo. Ma la parte più dura e secondo me più preoccupante riguardava l’entità
delle liste stesse, banali volumi apparentemente infiniti di etichette stanche
e scontate, una sorta di best-of dell’industria enologica, compilate senza un
minimo di passione o almeno di lontana idea di offrire qualcosa di diverso al
cliente. E’ come trovarsi in una trappola in cui si è costretti a bere
Cusumano, Feudi di San Gregorio, Sella & Mosca o Ruffino. Non se ne esce e
secondo me c’è un motivo storico: in questo paese non c’è cultura del bere. E’
triste da dire vista l’importanza internazionale dell’Italia in campo vinicolo,
ma il dato di fatto è che qui da noi si beve male, distrattamente, a casaccio.
Il cliente medio non ha curiosità, si fida cecamente di quei nomi che l’industria
e la pubblicità gli propinano e matura una sua convinzione, basata sul nulla,
che quelli siano i migliori vini esistenti. E non a caso la maggior parte di
quei vini sono fatti per impressionare al primo colpo, vini d’impatto che
lasciano la bocca dolce ma che difficilmente si fanno ricordare, quasi mai si
segnalano per una loro personalità, raramente emozionano. Ma non se ne esce se
non cambia la mentalità, se non si acquisisce un’apertura mentale che faccia in
modo che si abbia voglia di abbandonare nozioni standardizzate per scoprire (o
meglio Riscoprire) che c’è chi prova ad uscirne. E purtroppo gli interventi
contro Nossiter in questi giorni, che non sono mancati, sono stati spesso
indice dell’intolleranza a chi solo osa mettere i bastoni fra le ruote ad un
sistema apparentemente intoccabile. Ed è incredibile come i paralleli con
realtà sociali ben più serie vengano in mente.
Insomma, si, sono d’accordo
con Nossiter e credo che il polverone da lui alzato sia di fondamentale importanza
per muovere le acque nel mondo del vino italiano. Spero che almeno dopo le sue
parole chi già la pensava come lui prenderà un po’ di coraggio e comincerà a
far presente a ristoranti ed enoteche che i vini in lista sono tristi e poco
interessanti e che se ci fossero più etichette di vignaioli “veri”, si verrebbe
più volentieri a mangiare o comprare lì. Spero che i ristoratori e gli
enotecari stiano di più a sentire e si ricordino che il cliente non solo va
trattato con rispetto ma va incuriosito ed incentivato a provare qualcosa di
nuovo. Spero che queste speranze non si infrangano contro il solito cartello
del potere.
PS una sola cosa rimprovero a
Nossiter: l’avermi costretto a spendere un euro e cinquanta per comprare GQ,
rivista patinata che non avrei sfogliato mai nella vita se non avesse contenuto
il suo articolo. Vabè, per non farci caso mi berrò un bicchiere di Sassaia…