domenica 21 dicembre 2014

Falestar - Bortolotti

La bellezza dei vini quotidiani sta nel loro modo di esprimere non solo un territorio, ma un modo di vivere. Bevendoli si entra nelle abitudini dell'operaio in pausa pranzo, della famiglia riunita a cena, della scampagnata nel giorno di festa, nel profumo delle pietanza in cottura. Momenti simili in ogni regione, differenziati dal vino che va a finire nel bicchiere, di solito il simbolo di quella parte del mondo, un umile quanto importantissimo vanto che ogni paesano sente un pò suo. 

Purtroppo questa bellezza ha subito tanti ed ahimè spesso riusciti tentativi di offuscamento da parte della produzione seriale che ha ridotto etichette storiche a lontane fotocopie di ciò che erano in origine, per accontentare la grande distribuzione e lucrare il più possibile facendo della tradizione un mero business. Alcuni vini sono addirittura scomparsi o quasi, di altri per anni si è persa quella che era la loro vera identità. Un vino che potrebbe rientrare in entrambe queste categorie è il Pignoletto: vitigno storico dei Colli Bolognesi, è l'alternativa bianca ai frizzanti rossi dell'Emilia, ma è buono anche quando è vinificato fermo. Sempre prodotto in quantità limitata alla regione, è stato sostanzialmente vittima dell'invasione dei brutti prosecchi o simili, e quel poco reperibile sembrava essersi adeguato a quella corrente.

Ma non bisogna mai disperare, perchè silenti nella loro piccola cantina ci sono sempre degli artigiani "pazzi" che ci credono, ed il crescente movimento dei vini naturali ha trascinato alcuni di loro ad uscire allo scoperto, rendendo possibile a noi consumatori l'approccio con pignoletti di ottima fattura. Chi che me lo ha fatto riscoprire ed amare è stata senza dubbio Maria Bortolotti. che in realtà lavora sul suo vigneto a Zola Predosa dal 1987, in maniera seria e rispettosa della natura, con la passione che la porta ad imbottigliare vini fuori dalle regole, personali, espressivi e mai banali.

Di tutta la sua interessante gamma, dalle etichette con nomi fantasy, non riesco a star lontano dal Falestar, il Pignoletto rifermentato in bottiglia che è una goduria assoluta. I suoi lieviti sono presenti come da tradizione del metodo ancestrale, vinficazione classica in bianco e solforosa ai minimi livelli. Secco e lievemente aromatico, la sua delicatezza è la sua forza, spinta anche da una bella acidità, Con i suoi 12 gradi abbondanti non è di certo un vino pesante ma ha la forza giusta anche per essere aperto a tavola. Di sicuro la cucina familiare bolognese, a partire dagli affettati e dalle tigelle, ne saprà esaltare tutta la piacevolezza. Poche bottiglie prodotte, prezzo assolutamente irrisorio (meno di 10 euro) e scommessa vinta. Cercatelo, apritelo, godetevelo. E per chi non lo ha già fatto, scordatevi certi tristi prosecchi. Buone feste!

domenica 14 dicembre 2014

Nigrum 2011 - Podere Veneri Vecchio

Dice "eh ma l'aglianico è il barolo del sud", oppure "no io l'aglianico non lo considero proprio", e ancora "l'aglianico va bene se ci mangi piatti pesanti ed abbondanti". Sarà, ma io in questi anni di assaggi ho capito due cose sull'aglianico: che è un vino di cui si "dice" troppo e che soprattutto si bevono troppo spesso gli aglianici sbagliati. Tutto il resto è un mistero, ma un mistero bello, da scoprire con curiosità ed entusiasmo, come le zone in cui questo vitigno dà il suo meglio, dal Vulture al Taurasi, dal Molise al Sannio. Zone che non fanno nulla per farsi piacere ma che hanno tanto per essere amate.

Oggi mi soffermo proprio nel Sannio, per un aglianico del beneventano prodotto da una delle cantine più interessanti in cui io mi sia imbattuto negli ultimi anni: il Nigrum di Podere Veneri Vecchio.

Raffaello Annichiarico, l'agronomo e deus ex machina dell'azienda, non utilizza giochi di parole o aforismi, e non ha paura di etichette per descrivere i suoi vini. Li chiama vini naturali, perchè "il presupposto della cantina è quello di salvaguardare la terra, le piante e l'uomo lavorando con prodotti che non compromettono l'ambiente nella sua più ampia concezione". Il concetto del tempo è spesso sottolineato quando si parla di viticoltura e produzione di vino in generale, laddove si concepisca come attesa, pazienza, o svolgimento di fasi della vita. Un approccio filosofico e poetico che rende le parole per descrivere i vini assaggiati poco consone per darne un senso totale. Ci provo comunque, perchè qui si lavora bene, e ciò che finisce nel bicchiere è sempre di piacevolezza ed interesse unici.

Il Nigrum si potrebbe definire l'aglianico "base" della cantina, seppur non si debba pensare ad un vino incapace di invecchiare o tanto meno destinato ad un uso blando. Parliamo comunque di un cru dal vigneto di Castelvenere, a 250 m sul livello del mare, contatto sulle bucce per circa trenta giorni, lungo affnamento in acciaio e passaggio finale in barrique usate. Ovviamente lieviti indigeni per la fermentazione ed in cantina (seminterrata) il fresco è garantito naturalmente, senza controllo della temperatura. Se ne ottiene un aglianico di spiccata acidità, evidente nota terrosa e frutto che sembra quasi proteggersi in una cupa membrana fatta di note inchiostrate, vinosità e sottobosco. E' un vino che si fa bere con estrema facilità e che cerca il cibo senza essere troppo pretenzioso. Versatile a tavola, io l'ho apprezzato sia con pasta al forno che con il bollito di manzo.

Insomma, il Nigrum non vi svelerà i misteri dell'aglianico e sicuramente non vuole farlo. Bevendolo potrete assaporare tutta l'essenza di questo vitigno e del suo territorio, capaci di spiazzare, sorprendere e sopratutto, farvi stare bene.

mercoledì 3 dicembre 2014

Brut Nature - Tarlant

Bere Champagne è una di quelle cose di cui non ce n'è mai abbastanza. Possiamo riempirci la bocca con duemila discorsi di moralità, di opportunità, di sensi di colpa e di risparmi da fare e non fatti, magari anche tutti giusti. Non importa, date un bicchiere di Champagne al 99% delle persone a cui piace il vino e loro ne vorrano ancora, e saranno contenti di averlo bevuto. Qui non conta il bene e il male, conta che, piaccia o no a chi dice che "eh ma anche in Italia abbiamo grandi spumanti", lo Champagne ha una magia che va oltre l'etichetta, oltre il brindisi ed oltre l'effervescenza. Lo Champagne è unico, inimitabile e ne abbiamo bisogno. E se non costasse caro personalmente berrei quasi esclusivamente litri di bolle da Reims e dintorni.


Tornando a parlare da sobrio, devo anche sottolineare che la maggior parte della gente beve Champagne di mediocre qualità, quelli largamente distribuiti e prodotti dalle solite grandi case dal marchio inconfondibile e dal gusto rassicurante quanto noioso. Fortunatamente lo Champagne in realtà è soprattutto altro, anzi, a dispetto della sua immagine patinata, è un vino contadino, fatto in tante piccole cantine spesso situate nei seminterrati di appartamenti di vignaioli che hanno le uve piantate nel vigneto fuori la loro casa. Queste sono le persone che rendono indimenticabile un viaggio nella regione del più grande metodo classico esistente, tra il verde delle infinite vigne che dominano un panorama fatto di piccoli villaggi con dieci tetti e due bar ma che si conoscono in tutto il mondo perchè sono loro a dare i nomi ai Cru: Avize, Cramant, Ay, Ambonnay e tanti altri. Paesini che se non fosse per lo Champagne sarebbero al massimo immagini di sfondo ad un viaggio in macchina da Parigi verso il Belgio.

In mezzo poi ci sono realtà che da contadine sono diventate di numeri più importanti, sapendo mantenere sempre altissimo il livello dei loro prodotti.
E' il caso di Tarlant, domaine familiare la cui tradizione di vinificatori risale addirittura al 1700, ora condotta dall'ultima generazione che lavora nelle cantine di Oeuilly (15 km ad ovest di Epernay) le uve raccolte su 14 ettari di vigne sparse in quattro differenti Cru. Per quanto sia molto complicato avere un terreno sano in questa regione abusata dai grandi numeri, i Tarlant cercano di ridurre al minimo l'utilizzo di agenti esterni in vigna, dove la raccolta è manuale, ed eventuali fertilizzanti sono comunque organici. In cantina si mantiene uno stile preciso dettato da un dosaggio sempre molto basso, tanto che nessuno dei loro Champagne supera i 6mg/l di zuccheri. Non a caso la loro cuvèe base, di cui parlo è qui è un "nature" (zero zuccheri). Ed è maledettamente buono.

Classica composizione champenoise con Chardonnay, Pinot Nero e Meunier equamente distribuiti, questo Nature ha una carbonica composta ed elegante che trova il suo posto nel colore dorato, per poi dare subito spazio ad un naso originale ed intrigante, fatto di agrumi in evidenza, ma anche note di erba fresca ed uno sfondo quasi etereo. Il suo gusto è d'impatto immediato, di ottima e raffinata acidità, di un corpo che entusiasma e conquista, una mineralità che pian piano si fa largo, senza invadere il perfetto equilibrio. Lungo e mai banale, difficile, impossibile da lasciare in bottiglia. Uno Champagne da bere sempre, perchè in fondo abbinare un vino come questo è una questione di momenti, di sensazioni, di combinazioni. Brindateci prima di un pasto. Mangiateci il pesce. Oppure un risotto con funghi. Comunque, uscirete contenti. E di sicuro ne chiederete ancora.