martedì 28 giugno 2011

Due Champagne da paura


Ormai penso abbiate tutti capito quanto io non sopporti i luoghi comuni. Purtroppo nel mondo del vino ne esistono parecchi e nella maggior parte dei casi, oltre a portarsi in dote la classica mezza verità fonte di imprecisione e convinzioni approssimate, sono anche fonte di pregiudizio e limitazione nei confronti delle vittime predestinate. Ora, parlare di vittima quando il soggetto del post è lo Champagne sembrerebbe fuori luogo. E’ un vino fortunato, lo Champagne, gode di ottima salute grazie al suo nome che da solo dice tutto a tutti, anche a chi di vino capisce poco. Eppure lo Champagne è una grande vittima, non dal punto di vista del marketing e delle vendite ovviamente, ma dal punto di vista del tipo di consumo che se ne fa. Lo Champagne viene infatti considerato dal mondo intero come il vino della festa, da brindisi, da occasione speciale. Questa è forse la più grossa limitazione esistente nella cultura approssimata del bere. Infatti lo Champagne è un vino da pasto come forse nessun altro vino ed a seconda delle sue declinazioni può accompagnare dall’aperitivo al pesce fino ad arrivare alla carne ad ai formaggi. L’unica portata sulla quale non si dovrebbe mai abbinare è proprio il dessert, quella con cui un’alta percentuale di umanità puntualmente chiude il pranzo della celebrazione, rivestendo di metallo le papille gustative travolte dallo stucchevolezza dello zucchero e dalla secchezza carbonica delle bollicine. E poi lo Champagne dovrebbe essere discostato dall’automatismo brindisi-festa non solo tecnicamente ma anche, e forse soprattutto, filosoficamente. Chi ha deciso che dev’essere per forza un vino legato all’allegria ed al giubilo? Lo Champagne può essere cupo, scuro, chiuso, austero, persino triste nella sua anima. Al di là del frizzante e del cin cin, dietro c’è una storia legata ad un terreno magico che i suoi contadini cercano di difendere dalla speculazione, una storia di lavoro, di sole catturato dal gesso, di piccole vigne e di selezioni curate, di sfide contro il freddo, la pioggia, di apprezzamento del silenzio e del buio della cantina. Insomma, lo Champagne in fondo ha uno spirito operaio, quello dei piccoli vigneron che non vendono l’uva ai grandi marchi e che rispettano la tradizione sfidando il mercato attuale e qualche volta fregandolo alla grande. E se il prezzo medio dello Champagne vi sembra alto, avete ragione. Ma se si ha la pazienza e la cura di cercare tra nomi meno noti (che spesso sono i migliori) si scoprirà che si potrà vivere delle emozioni spendendo intorno ai 30 euro. Se poi avete modo di fare un salto in questa splendida ragione, avrete modo di godervelo allo stesso prezzo di un Metodo Classico qualsiasi. Maledetti costi di spedizione!

Questi sono due Champagne che con amici ci siamo goduti lo scorso sabato a cena, due espressioni del Pinot Nero da due territori diversi da due piccoli-grandi vignerons:

Inflorescence La Parcelle 2003 – Cedric Bouchard

Cedric Bouchard opera nell’Aube, la zona regionale più periferica e storicamente considerata la meno vocata. La realtà oggi è ben diversa e questa zona, lontana dalle coltivazioni forzate della Montagne de Reims e della Cote des Blancs, sta vivendo una nuova giovinezza grazie all’attento lavoro di alcuni produttori indipendenti. Tra questi, Cedric Bouchard è forse e il più ricercato ed i suoi vini, provenienti da vigne lavorate completamente a mano, hanno ormai prezzi importanti. Questo Parcelle 2003 è un Blanc de Noirs che si mostra inizialmente atipico per il suo naso biscottato e parecchio floreale, intriso di una nota minerale che dall’olfatto si trasporterà velocemente al gusto. Il primo impatto è stranamente zuccherino ma forse era solo uno scherzo della bottiglia appena aperta. Al secondo sorso infatti viene fuori tutta l’acidità ed il corpo di uno Champagne che sembra crescere di importanza col tempo che passa e sembra quasi implorare qualche anno in più di bottiglia. Arrivano succosi i frutti rossi che mi sarei aspettato anche al naso, una morbidezza a fondersi con uno spirito austero, che concede ben poco alla faciloneria. Finale sapido e di gran lunghezza, con retrogusto veramente magnifico. Uno Champagne di incredibile equilibrio, elegante, capace di farsi amare nonostante la sua schiena dritta.

Rosè de Saignèe Premier Cru – Larmandier Bernier

C’è sempre un pò di diffidenza verso i rosè prodotti da chi ha sede nella zona dei bianchi. Ma se Larmandier-Bernier è un asso nei Blanc de Blancs, il suo Rosè de Saignèe, prodotto da solo Pinot Nero a contatto con le bucce, viene considerato un esempio in questa particolare categoria. Particolare perché siamo oltre lo Champagne, e anche oltre il rosè: questi sono vini che tendono ad esaltare il vitigno il più possibile, cercando di conservarne il colore fino all’estremo. Non è un caso che sul nome (saignèe) ci sia riferimento al sangue ed è proprio questo il colore che questo vino vuole ricordare. Quando si versa nel bicchiere il vino ha un colore profondo, tendente quasi al rosso e se si utilizza, come consigliabile, un bicchiere ad ampio calice, quando l’effetto della carbonica si attenua, sembra quasi di avere di fronte un Borgogna. Impressione confermata dal naso intenso di frutti rossi maturi, di sciroppo ai frutti di bosco e di note terrose. Un olfatto limpido ed affascinante, che invita all’assaggio immediato. E qui si può rimaner spiazzati perché questo vino si concede molto lentamente, districandosi tra tannino ed acidità, imponente mineralità fino ad arrivare ad un sapore avvolgente, tra la caramella alla frutta ed il pepe rosa, tra mirtillo e sottobosco. Inizialmente mette quasi paura, aspettato e fatto respirare cattura e coinvolge quasi da non poterne più fare a meno.

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