mercoledì 23 febbraio 2011

Pensieri sulla birra italiana e due note sulla Westmalle Tripel


Il problema delle birre è chi le beve. Lo dico senza spocchia, senza voler essere snob. E’ innegabile che la cultura della birra nel nostro paese non esiste, per motivi che non sono solo storici o tradizionali. Non esiste perché in realtà il nostro è un paese che ha sempre goduto di tutto il suo infinito patrimonio alimentare senza preoccuparsi molto di evolvere in quel senso, quasi accontentandosi di tanto bendidio ma pian piano perdendo la percezione dei sapori veri. L’esemplificazione di questo non sta soltanto nel proliferare di cibi surgelati o inscatolati, non sta nemmeno esclusivamente nelle grandi pecche dovute al selvaggio diffondersi di prodotti industriali e della grande distribuzione. Gli esempi stanno anche nelle piccole cose, come ad esempio i pasti veloci consumati mediamente dagli italiani, che nel 99% dei casi si traducono in tramezzini senza sapore, pizze a taglio fatte con i piedi, panini violentati da tavole calde da ergastolo immediato. Gli esempi stanno in quello che normalmente l’italiano beve, dal vino di ignota provenienza alla grappa “della casa” offerta dopo il caffè. Tanti esempi che distruggono in un amen un patrimonio culturale inestimabile che ci fa dimenticare che un tramezzino ed un panino possono anche essere freschi, autentici e buoni, che la pizza fatta con tutti i crismi è diversa da quella che normalmente siamo costretti ad ingurgitare e così via.

Se però l’italiano medio sa in cuor suo che può esistere una differenza di qualità per queste cose e pian piano si sta crescendo grazie anche agli sforzi di appassionati e soprattutto onesti baristi, ristoratori o fraschettari che siano, quando si cerca di fare un discorso di qualità sulla birra, tutto diventa tremendamente più difficile. Perché da noi la birra di beve con la pizza, al massimo col panino di cui sopra o ancora d’estate, ghiacciata come una banalissima bevanda gassata. La birra a tavola non esiste, non centra nulla, è un tabù. Al pub al massimo con le patate fritte o con quegli infernali stimolatori di sete chiamati rice crackers che farebbero diventare dissetante anche l’olio di fegato di merluzzo. E purtroppo la strada che è stata intrapresa da un po’ di anni a questa parte da molti piccoli produttori di birra artigianale in Italia è molto lunga, anche se i tifosi non mancano e sono in netta crescita. Molti di loro tra l’altro sono giovani ed è per questo che mi permetto di dare un piccolo ed umile consiglio: non bisogna mai tirarsela troppo, non lasciare che il mondo della birra artigianale sia ad esclusivo appannaggio di eno-intellettuali che guardano tutti dall’alto in basso e frequentano posti esclusivi e sopra le righe. E’ anche per questo che mi piacerebbe vedere una maggiore presenza di bottiglie nei classici formati da 33 o 50 anziché – com’è ora la stragrande maggioranza – da 75. Capisco che è quasi sempre una bottiglia che permette alla birra di crescere ed evolvere meglio ma anche è un formato elitario, che presuppone la presenza di almeno due bevitori di birra e che spesso allontana il singolo curioso a provare perché magari non c’è nessuno con cui condividere la bevuta. E poi è un formato prettamente da tavola, cosa che, come accennavo prima, per noi è ancor più spesso fantascienza che realtà. Pretendere che si passi in un istante da pizza e chiara a birra cruda che sostituisce il vino è impensabile in generale, lo è ancor di più in un paese gastronomicamente chiuso mentalmente come il nostro. Detto questo ribadisco il grande applauso a tutti coloro che stanno diffondendo il verbo della buona birra, dai produttori passando per i locali che le propongono, in vendita, alla mescita o persino in una vera e propria lista affiancata a quella dei vini come fanno dei ristoranti, alcuni dei quali anche blasonati. E’ questo l’unico modo per aprire nuovi orizzonti.

Io ho alcune birre italiane a casa, ne apprezzo molte e vado sempre alla ricerca di qualche novità, fomentato dai miei amici birraioli per eccellenza. Ma ovviamente non rinuncio mai alle birre del paese che mi ha fatto entrare in fissa totale per questa bevanda: il Belgio. Dire che lì la birra è come il vino da noi è addirittura un undertstatement, forse mi verrebbe più da paragonarla alla pasta, vista la sua diffusione popolare e le sue centinaia di interpretazioni. Un paese in cui la qualità media della birra è altissima ed i prodotti industriali sono spesso costretti a mantenere uno standard particolarmente alto perché il pubblico è esigente e non accetterebbe tradimenti facili. Di certo la standardizzazione e la faciloneria hanno colpito anche il mondo della birra belga ma quelli che resistono sono tanti. Tra i tanti, quei frati trappisti che tra una meditazione ed una preghiera fanno nascere gioielli indimenticabili nelle cantine delle loro abbazie. Sono sei le birre trappiste ufficiali, tutte belghe e tra queste campeggia la maestosa Westmalle, la cui versione Tripel, triplo malto se lo vogliamo tradurre all’italiana, è la più ricca d’alcol e la più corposa.

Splendido colore ambrato con schiuma dorata e vellutata, affascina al naso con le sue note tostate e caramellate, un nonsochè di boschivo, un tocco di salamoia, una lieve essenza floreale e qualche spezia orientale. In bocca è cremosa, di grande avvolgenza, struttura imponente, nota alcolica percepibile ma non invadente, carbonica che si muove con discrezione. E’ una birra di gran corpo ma digeste come direbbero in Francia, cioè non pesante, digeribile insomma. E rimane il suo sapore a lungo, richiamando un secondo sorso per rigustarla da capo e scovare qualche altra particolarità. E’ assolutamente una birra da pasto con possibilità di abbinamento infinite, persino con primi piatti al ragù (magari di cinghiale) con secondi di carne brasata, con formaggi stagionati. Cercatela e proponetela a chi non è avvezzo a pasteggiare a birra. Si potrebbe vincere facile.


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