lunedì 28 febbraio 2011

Vecchie fraschette, nuove osterie


Delle tante tradizioni familiari che con il tempo si perdono, ce n’è una che mi ricordo con particolare affetto. Avveniva tutti gli anni, la prima domenica di settembre, nel periodo della mia adolescenza, quello che va più o meno dal 1984 a fine decennio. Roma all’epoca ad agosto sembrava veramente svuotarsi ed in quei giorni le strade erano ancora semideserte. Si respirava l’aria del rientro, l’afa era mitigata dal ponentino e alla prima giornata di campionato la Roma perdeva inquietanti partite contro Pescara, Atalanta o Ascoli. Tra la rassegnazione di mio padre e il disappunto del sottoscritto già avvezzo alle sofferenze del tifoso, ci si vedeva sotto casa di mia nonna con tutti gli zii e si partiva per i Castelli, destinazione fraschetta ad Ariccia. Ci si sedeva ad un tavolo all’aperto e mentre l’oste portava il vino sfuso (sulla cui qualità non posso pronunciarmi, all’epoca per me solo chinotto o coca ma non penso fosse chablis) i “grandi” andavano al chiosco sulla piazza a prendere porchetta, pane, affettati e formaggi vari. Eh si, perché una volta le fraschette non servivano cibo, offrivano solo un posto dove sedersi e quel vino un po’ rustico per accompagnare pane e companatico da procurarsi altrove. Erano parecchi i tavoli attorno a noi dove si faceva la stessa cosa, questo era il modo per salutare l’inizio di una nuova stagione, tra chiacchiere, risate, ciambellette e cannellino.

Oggi quando passo ad Ariccia tra i tavoli che sono  aumentati a dismisura, destreggiandomi tra un traffico che al sabato sera rivaleggia con Trastevere, mi viene sempre un po’ di insopportabile nostalgia. Le fraschette ormai si sono trasformate in vere e proprie trattorie con cucina, proponendo primi e secondi della tradizione con tanto di menù e camerieri. L’unica cosa che non è cambiata è la qualità del vino. Possono quindi considerarsi a tutti gli effetti parte integrante di quel calderone confusionario delle “osterie romane”, quei locali che dovrebbero essere gli avamposti della cultura cullinaria capitolina e che spesso sono incensati anche dalle guide di settore. Chi è nato a Roma però, specialmente chi è abituato a mangiare quei piatti da bambino, sa bene che dietro quelle insegne si nascondono – nemmeno tanto velatamente – posti dove prendere la classica “sola”. Però ci si casca, fuorviati dall’ambiente rustico, il servizio informale, le porzioni immense ed il famigerato “se magna bene e se spenne poco”. Peccato che questi miti siano sistematicamente smentiti. L’ambiente rustico è sempre più frequentemente confuso con sciatteria ed arredamenti impolverati, il servizio informale tende a diventare scorbutico se non maleducato, alle porzioni immense si abbina una noncuranza nella preparazione ed infine il conto che non ha nulla da invidiare a quello di un ristorante vero e proprio.

Attenzione, non voglio togliere nulla alla cucina romana: rimane la mia preferita, anzi la mia e basta, in quanto mi appartiene in tutto e per tutto. E per fare un’amatriciana, un cacio e pepe, una carbonara o ancora per cucinare i carciofi alla romana o il quinto quarto, occorrono preparazione, tecnica, ottimi ingredienti e rispetto per l’equilibrio dei sapori. Qualcuno di voi conosce un’osteria tradizionale a Roma dove tutti questi accorgimenti vengono considerati? a me sfuggono. Allora non vedo perché dovrei spendere trenta euro per un antipasto con affettati da supermercato, un primo fatto così così ed un tiramisu con le uova Aia? Per non parlare dei vini proposti ad accompagnare il tutto, “il rosso della casa” di provenienza non ben identificata viene spesso portato a tavola senza possibilità di scelta, e se ci sono alternative in bottiglia si riducono a prodotti base di cantine industriali che farebbero quasi rimpiangere lo sfuso. E mi arrabbio perché queste osterie non solo offrono un pessimo servizio al cliente ma tradiscono una cultura importante sulla quale lucrano approfittandosi di turisti, avventori casuali o gruppi di amici che erano rimasti a vent’anni fa ed ora trovano una cocente delusione. E mi arrabbio perché l’esistenza di questi locali dà una giustificazione a quei ristoratori che inseriscono la cucina romana nel loro ristorante stellato e con la scusa della cura e della ricerca degli ingredienti, fanno pagare un’amatriciana sedici euro. Perché lasciare a posti chic quella che è una cucina popolare? perché non ricercare tra i tanti piccoli agricoltori ed allevatori delle campagne regionali dei prodotti buoni e genuini per poter fare quei nobili piatti? possibile che si debba per forza essere schiavi di Barilla, Fiorucci e Kraft? la cucina romana non è questo, non lo è mai stato. E siccome in pochi ormai hanno il tempo e la voglia di cucinarsi a casa, diamo una dignità a questi locali, non li lasciamo in mano a sfruttatori che si beano del turista che viene a Roma per vedere il bar dei Cesaroni. Roma ha una sua storia, la sua cucina ancor di più. Cerchiamo di riscoprirla, senza essere né sciatti né snob. Ce lo meritiamo.

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